il lutto

Addio ad Ada Vita, la crocerossina

Si è spenta a 98 anni. Nei suo diari raccontò giorno per giorno gli anni della guerra a Bolzano. Fondò l’Avis e da infermiera della Croce Rossa prestò soccorso in Libano e nelle regioni colpite dai terremoti


Luca Fregona


Bolzano. Si è sentita male improvvisamente lunedì pomeriggio nella sua casa di via Fiume, dove viveva dal 1932, da quando i suoi genitori si trasferirono da Milano. Il tempo di portarla al San Maurizio, i medici che scuotono la testa, Elena, la badante, le dà ancora una carezza. Ada si addormenta. Se ne va così, serenamente. A 98 anni sapeva che la morte poteva arrivare in ogni istante. Aveva già scritto il suo necrologio. Dice così: «Ama, conforta, lavora e salva. Oggi lascio questo mondo per unirmi felicemente ai miei familiari. Sorella Ada Vita».

In queste parole c’è tutto. “Sorella”: perché lei era una infermiera crocerossina, e la Croce Rossa è stata la sua vita.

“Ama, conforta, lavora e salva”: il suo credo, il motto delle sorelle crocerossine. Ada ha rischiato la vita in Libano, è accorsa a prestare aiuto in Friuli, Irpina, a Stava, nelle regioni devastate da terremoti e alluvioni.

“Unirmi felicemente ai miei familiari”: papà Giuseppe, la sorella Lucrezia, mamma Anita. Il ricordo di un’infanzia felice custodito per decenni nella casa di via Fiume, dove tutto è rimasto com’era, e le persone scomparse sembravano essere sempre lì, con lei. Un mondo che le bastava.

I taccuini. Ada Vita è un pezzo importante della storia del Novecento di Bolzano. Ci eravamo sentiti poche settimane fa: tra le pile di carte del suo sterminato archivio, aveva trovato la lettera al Comitato della Croce rossa di Bolzano (datata 1968), di un tenente della Finanza pugliese. Cercava l’infermiera che il 20 settembre del 1943, in Stazione, lo aveva fatto scendere e fuggire dai vagoni diretti ai lager in Germania. Ada, voleva partire da qual pezzo di carta per ricostruire una storia che considerava importante. «Mi aiuti a capire chi era? Che fine avranno fatto quelli che erano con lui?».

Stava per compiere un secolo, e ancora aveva voglia di scavare, ricordare, scoprire le piccole storie delle persone. Non l’epopea. Non le interessavano i ricordi ingigantiti, detestava “la retorica dei reduci” piena di eroismi, indifferente alle sofferenze. Le “piccole storie”: aveva iniziato a 17 anni, tenendo un diario della città in tempo di guerra dal ’42 al ’45 (un documento importantissimo pubblicato nel 2007 in un volume dal titolo «Il mio “segreto” diario di guerra»). Conservava con dedizione in una vecchia scatola di latta, quei taccuini piccoli piccoli, zeppi di appunti precisi (nomi, orari, descrizioni), fitti della sua calligrafia da ragazzina, con le lettere gonfie e svolazzanti. Taccuini di dieci centimetri per sei, messi insieme alla buona, realizzati con carta di recupero tenuta insieme dallo spago. «Li portavo sempre con me - raccontava -, nascosti e protetti. Parlano di quello che provava la gente comune alle prese con i problemi di tutti i giorni». Le difficoltà, la paura, la fame, l’arrivo dei tedeschi l’8 settembre.

Il Natale sotto le bombe

La ragazzina Ada Vita annota il primo bombardamento su Bolzano. «Era il 2 settembre del 1943, è stato spaventoso e devastante. Io guardavo in cielo e mi sono messa a contare gli aerei. Subito dopo abbiamo sentito un sibilo e poi un forte scoppio seguito da altri e uno spostamento d’aria. Dopo abbiamo visto macerie, sassi, e molti morti verso la galleria del Virgolo. Le bombe avevano distrutto i binari della ferrovia, il Teatro Verdi. Nel mio diario scrissi che Radio Londra aveva trasmesso un annuncio terrorizzante: sarebbero tornati nuovamente a bombardare per far scontare ai bolzanini tutti i fiori e le mele che le donne sudtirolesi avevano offerto ai tedeschi invasori».

I giorni di guerra diventano settimane, poi mesi, poi anni. «In famiglia non giravano soldi e dovevamo convivere con la paura: vedevamo gli aerei sganciare le bombe. Quando andavamo a Gries per rifugiarci, ci scontravamo con i tedeschi della zona, che tentavano di impedirci di entrare nei bunker. Una lotta tra disperati. Erano attimi tremendi, che ricordo alla perfezione. Abbiamo trascorso anche un Natale nella galleria del Virgolo dove c’era un rifugio antiaereo. Pranzammo con pasta fatta in casa senza uova, un’aringa, acciughe e olive, fichi secchi e biscotti vecchi». Una città distrutta dov’era sempre difficile trovare da mangiare. «Per procurarci del cibo tenevamo due galline in casa. Stavano in bagno. Annotavo tutti i giorni quante uova facevano. Un fattorino dell’Eiar, dove lavorava mia sorella Lucrezia, ci regalava farina bianca per fare la polenta, ci passava dei buoni per il pane. Alle tre di notte io e mia madre ci alzavamo per fare la fila per acquistare la carne. Tutti erano alla ricerca di generi alimentari. La fame è una brutta bestia».

Una raffica di mitra

Poi le convulse giornate della liberazione i primi di maggio del ’45. Ricordava i rastrellamenti in viale Druso, gli scontri armati davanti a Cristo Re, i morti riversi sulle strade. «Mi affacciai dalla finestra del salotto: i nazisti avevano arrestato un uomo che si chiamava Otto Menestrina, lo tenevano prigioniero in cortile. Lo chiamai ad alta voce e nello stesso istante una donna tedesca in divisa mi sparò una raffica di mitra, senza colpirmi per fortuna. Altrimenti ora non sarei qui a raccontare la mia storia».

Ripercorreva spesso la “giornata di sangue”, il 3 maggio 1945. «Quella mattina stavo andando a messa con mamma a Cristo Re. Raffiche di mitragliatrice, colpi di mortaio. Era il caos. In vicolo Giardini i partigiani affrontavano i tedeschi: volavano pallottole da tutte le parti. Ricordo un’auto, una Topolino, ribaltata in viale Druso. Camminavamo rasente i muri per evitare i proiettili. Ormai eravamo in mezzo, l’unica speranza era raggiungere la chiesa. Impiegammo molto tempo per fare quel breve di tratto di strada. Cristo Re era piena di gente terrorizzata come noi. Fuori fu un massacro».

La contessa Fox

Pochi giorni dopo la fine del conflitto, Ada osserva le code dei soldati italiani liberati dai lager che rientravano in Italia. Avevano bisogno di tutto: una coperta, un piatto di minestra, un paio di scarpe. Guarda con ammirazione la contessa Fox, a capo della Croce Rossa, che, con i Domenicani di Cristo Re, accoglie, sfama, cura, consola. Anche Ada dà una mano.

«Da bambina ero fascistissima - spiegava-. D’altronde: sono nata nel 1924, persino le lezioni di matematica erano inzuppate di propaganda. Ci facevano una testa così. La guerra mi ha fatto cambiare completamente la prospettiva. E ho capito mio padre, un impiegato delle poste di origine napoletana, spedito a Bolzano per punizione perché criticava il regime. Aveva ragione lui».

Un papà amatissimo, Giuseppe. «Mi voleva un mondo di bene, mi portava dappertutto. Ho visto nascere la stazione di Milano. Giocavo con gli altri bambini a pochi passi dagli operai, vicino alle cataste di acciaio, vetro e legname. Il babbo, invece, si fermava a guardare quell’opera mastodontica che stava nascendo. Erano gli anni Venti. Gli anni della mia infanzia, un ricordo dolcissimo. Quando sono arrivata a Bolzano, avevo già otto anni». All’inizio la città non le piace. «Mi sembrava un paesone dove c’era poco o nulla da fare, e non capivo perché la gente parlasse una lingua tanto diversa dalla mia. Avevo una diffidenza scontrosa verso i “tedeschi”. Molte cose le ho capite solo dopo».

Una donna indipendente

Finita la guerra, ha già le idee chiare: riprendere a studiare e trovare un lavoro. «Volevo essere indipendente in tutto e per tutto. Non ho mai pensato al matrimonio come la via più breve per sistemarsi». Detto, fatto. Si laurea in pedagogia a Padova e viene assunta dal Ministero della Difesa al Corpo d’Armata.

«All’inizio ero al centro trasmissioni. Sono stata la prima, dopo la guerra, a collegare con una telescrivente la linea militare Bolzano - Bologna. Sono stata anche archivista e capo dell’ufficio personale. Ma nemmeno in quell’ambiente tutto di maschi mi è venuta voglia di sposarmi».

Non fa per lei avere dei figli, una famiglia. «Sono nata con una gran voglia di restare sola - diceva - e così è stato. Da ragazza, poi, ero molto scontrosa. Non era francamente facile avvicinarmi».

Sorella Ada

Negli anni ’50 è tra le fondatrici dell’Avis, l’associazione donatori di sangue. «Eravamo dei pionieri. Mi occupavo del controllo dei flaconi, delle celle frigorifere e della conservazione del plasma. Allora i prelievi si effettuavano in modo artigianale grazie alla collaborazione di tre dottori disponibilissimi: Braito, Cappi e Morini. Tutti i volontari davano una grande mano».

Nel 1959 diventa “Sorella Ada”, infermiera volontaria della Croce Rossa, e nel 1968 ispettrice della Cri locale. Alla “Rossa”, dedicherà tutta la vita senza risparmiarsi: quarant’anni di servizio, e il resto a sistemare archivi e carte. Come infermiera volontaria, è impegnata in vari teatri di guerra come il Libano, e nei terremoti del Friuli e dell’Irpinia.

«Lavoravo sempre fino alle 2 di notte, ma non ho mai sentito il peso della stanchezza».

Nel 1982 durante la missione di pace a Beirut per proteggere i palestinesi, è a fianco di Paolo Nespoli, proprio quel Nespoli, l’astronauta, all’epoca sergente maggiore dei paracadutisti. Si sono rincontrati nel 2019 ad un’iniziativa dell’Upad.

Nespoli l’ha abbracciata come non la vedesse dal giorno prima. Ada era emozionatissima, le tremava la voce. Le guance bagnate dalle lacrime. «Ci tenevo tanto, è stata una pagina molto importante della mia vita».

L’orrore di Stava

Uno dei ricordi più dolorosi che non l’abbandonava mai, era la tragedia di Stava del 1985. «Tutti quei morti, anche i bambini inghiottiti nel fango. Dopo la sciagura sono stata a Ora, nella cella frigorifera dove si raccoglievano i cadaveri. È difficile, forse impossibile raccontare quegli attimi. Ti chiedi dove sia Dio, ma poi trovi la risposta negli sguardi delle persone che chiedono aiuto». Ama, conforta, lavora e salva.

Non aveva paura di niente, Ada, una grinta che poteva sembrare anche aggressiva ma che, alla fine, sfumava sempre in un sorriso dolce. Fino a 96 anni ha guidato la sua piccola utilitaria, ogni giorno andava a pranzo al Circolo ufficiali di viale Druso. Neanche il Covid, contratto in pieno lockdown, l’aveva piegata. Non accettava mai le piccole grandi ingiustizie che si subiscono nella terza età. I ritardi per l’assegno di cura, la linea del telefono che non viene riparata per 90 giorni, l’ascensore per disabili che non funziona, il servizio di accompagnamento che non risponde. Alzava il telefono. «Dovete fare un articolo!».

E noi, «Sissignora!», lo facevamo.

Nel suo ultimo messaggio, dice che ci aspetta giovedì 24 novembre alle 11 a Cristo Re, per “un mio ultimo saluto”. Saremo in tanti. Anche quella Bolzano svanita nella polvere del tempo, che, oggi, ha inghiottito anche lei.













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