la storia

Bolzano: addio ad Alvaro Soppa, istriano lacerato dall’esilio

Si è spento a 93 anni , fu testimone dell’esodo degli italiani cacciati da Tito


di Luca Fregona


BOLZANO. Una mano forte come una tenaglia. Rigoroso e severo, ma anche - a suo modo - dolce. Uno di quegli uomini vecchio stile, intagliati nella pietra dalla guerra, duri e generosi (ma solo se te lo meriti), onesti e, anche troppo, sinceri. Insomma, quella generazione di cui hanno buttato via lo stampo.

Bolzano perde Alvaro Soppa, morto a 93 anni, portandosi nella tomba una ferita che lo lacerava da oltre 70 anni.

Istriano, esule, cacciato dai titini poco più che ventenne, arrivato in Alto Adige nel 1947, Soppa è stato uno degli esponenti più importanti di quella comunità dalmata-istriana che ha costituito l’ossatura della rinascita della nostra città ( e del gruppo italiano) nel dopoguerra. Uno di quei tremila profughi “sbarcati” in provincia tra il 1947 e il 1954.

L’esodo. L’esilio dalla sua Pola, era il grande dolore che Alvaro Soppa si portava dentro. Un’ingiustizia che non gli dava pace. «Quel giorno nevicava - ricordava quasi assorto -. Non lo dimenticherò mai. Mai vista prima la neve a Pola... ».

Quasi un segno del destino, la neve. Era il febbraio del 1947. Soppa aveva solo 26 anni quando s'imbarcò con la famiglia sul piroscafo «Toscana» mandato da Degasperi per portare via gli esuli istriani. «Venivamo da 40 giorni di terrore titino - il suo racconto -, avevamo solo voglia si andare via, di fuggire da quell'orrore. Il desiderio di uscirne vivi era più forte della nostalgia per quello che si lasciava. Solo adesso, che sono vecchio, sento il bisogno di trovare le mie radici. Anche se la mia Pola - oggi - non esiste più». Per non dimenticare quelle radici, organizzava conferenze, presentazioni di libri, incontri coi testimoni ancora vivi. Chiamava il giornale e con la sua voce senza fronzoli non aspettava neanche il “pronto?”. «SOPPA, sono SOPPA - diceva secco nella cornetta -. Mi serve un piacere, mi scrive due righe?».

E come dirgli di no? Solo a sentirlo, ti mettevi sull’attenti. Lui poi ti invitava al bar sotto casa in piazza Mazzini, ti offriva il caffè e ti raccontava tutta la storia.

Alvaro fuggì da Pola con i genitori e i due fratelli. «Siamo arrivati subito a Bolzano. Mio padre era riuscito a trovare un negozio dove ricominciare la sua attività di commerciante. A Pola avevamo una profumeria e un bazar...». Polesani, fiumani e dalmati si trovano bene in Alto Adige. «Ci siamo sempre sentiti a casa - ripeteva -. Forse perché anche noi veniamo da una città multietnica, amministrata in passato dall'Austria. Molti di noi sapevano bene il tedesco. L'amore per l'ordine, la pulizia, la buona efficienza dei servizi, anno parte del nostro Dna». Caratteristiche che De gasperi aveva valutato bene nell'immediato dopoguerra. Nella sua testa, l'Alto Adige plurilingue e "asburgico" era la nuova patria ideale per gli esuli. Arrivati a Bolzano, i Soppa vivono per mesi nel retrobottega del negozio di Corso Libertà affittato dal padre . Una situazione di "privilegio" rispetto alle altre centinaia di profughi che, invece, vengono sistemati in campi di raccolta ricavati in strutture militari come la caserma Guella di Laives, un deposito militare ai Piani e un capannone dell'aeronautica a Salorno. A Bolzano, i campi e le baracche sono comunque una soluzione di passaggio non paragonabile a quella - tragica e ghettizzante - di altre città. Istriani e dalmati vengono assorbiti velocemente nel tessuto sociale. I profughi che si fermano in Alto Adige appartengono alla media e piccola borghesia delle professioni: architetti, medici, funzionari di banca, ingegneri, molte maestre. Tra gli avvocati ci sono anche Giovanni Dragogna, papà del noto legale bolzanino Sergio. E Giuseppe Salghetti Drioli, papà dell’ex sindaco di Bolzano, Giovanni, originario di Zara. Alfredo Negri, un funzionario dell'anagrafe, fonda l'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia che si occupa della prima assistenza (casa, lavoro, vestiti e cibo). A Bolzano, la rete di auto-aiuto diventa ben presto capillare e organizzata. Può contare sull'appoggio - determinante - del viceprefetto dell'epoca Oscar Benussi. Fiumano ed ex fascista, Benussi era stato mandato da Degasperi in Alto Adige anche per gestire la "questione profughi". «Un uomo eccezionale - ricordava Soppa -, ci aiutò moltissimo». Ben presto la "lobby veneto-giuliana" occupa posti di rilievo all'interno della comunità italiana dell'Alto Adige. Vittorio Karpati, vicequestore di Fiume fino al 1945, diventa vicequestore di Bolzano. Il giudice Radnich, di Pola, presidente del Tribunale. L'avvocato De Vernier, di Pola, segretario della Croce Rossa. Il medico fiumano Leone Spetz Quarnari direttore dell'ospedale di Bolzano. Ercole Scopigno da Zara, direttore degli uffici finanziari; , fiumano Ladislao De Laszloczky, direttore della Cassa di Risparmio; il fiumano Rodolfo Sperber direttore della Sasa. e presidente del Coni.

In zona industriale, invece, ci pensava Ruggero Benussi, figlio di Oscar e in seguito esponente del Msi e di An, a "piazzare" istriani e dalmati nelle fabbriche italiane. Benussi era il segretario particolare di Vincenzo Ventafridda, direttore delle Acciaierie. Bastava una sua parola per far assumere operai, tecnici e ingegneri in Lancia, alla Montecatini, alla Falck. I profughi avevano costruito una città nella città. I capelli si tagliavano da un barbiere di Spalato che aveva bottega - e non poteva essere altrimenti - in via Dalmazia. Vestiti, alimentari, articoli per la casa, si compravano nei negozi aperti dagli esuli. Pochi lo sanno, ma la gloriosa «Bolzano nuoto», è stata fondata dal dalmata Ervino Katalinich. «Le feste però - ricordava Soppa - le facevamo ognuno per conto proprio. Fiumani coi fiumani, polesani coi polesani, dalmati coi dalmati. Noi polesani eravamo più cosmopoliti e borghesi. Gli zarattini, invece, più uniti e campanilisti». Una realtà che non esiste più. Da tremila, la comunità istriano-dalmata altoatesina si è ridotta a 60 persone. «Ci ritroviamo quattro volte all'anno - diceva amaro -. Mangiamo la Cubana e la Pinza, beviamo un bicchiere e parliamo in dialetto. Siamo rimasti talmente pochi, che non ha più senso dividerci per città». Non c'è nemmeno ricambio: i figli, e i figli dei figli, non sentono il legame con la Venezia-Giulia. «Un po' - rifletteva - è anche colpa nostra -: io non ho mai raccontato niente. Niente dell'esodo, delle foibe, del terrore rosso. Le nostre sofferenze, poi, per 50 anni sono stata ignorate dalla storia ufficiale. Sui libri non c'era un riga. Istriano voleva dire fascista. No, non è stato facile raccontare la nostra verità...».

No, non lo è stato.

Ciao SOPPA, la terra, finalmente, ti sia lieve.

twitter: @lucafregona













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