LA STORIA

Bolzano, il soldato che disse no al fascismo 

Giacinto Ledonne insignito con la Medaglia d’Onore  della Repubblica. La figlia: il lager lo ha segnato tutta la vita 



BOLZANO. Hanno aspettato che le loro divise diventassero stracci. Che nelle baracche arrivassero le malattie, la fame. Poi, hanno deciso che era arrivato il tempo di offrire loro una scelta che pensavano fosse inevitabile. E allora gli ufficiali tedeschi del campo di prigionia dei soldati italiani catturati dopo l'8 settembre, ad Adenau, hanno chiesto ad uno ad uno di quei volti emaciati se volessero lasciare quell'inferno e combattere al loro fianco, con la repubblica di Salò : «Avrete cibo e divise nuove...». Niente, hanno detto di no in tanti. Quasi un esercito. Troppi, per i nazisti, che allora ricominciarono a trattarli come bestie. Uno di quei soldati era Giacinto Ledonne. «Ecco - racconta oggi sua figlia Maria - ascoltando anni dopo il racconto di mio papà non ho subito realizzato la portata di quel suo gesto. Lui era così umile e buono. Poi, a poco a poco, ho capito». Ha compreso, Maria Ledonne, che questo è stato eroismo. Di quello vero, non l'assalto col sangue agli occhi, ma la resistenza quieta e incrollabile di chi, posto di fronte ad una scelta tra il bene e il male, tra quello che ritiene giusto , come uomo e cittadino-soldato, sceglie quella meno facile. A volte, quando non si riesce a capire qual'è la scelta giusta occorrerebbe pensare a quella più difficile, dice il filosofo, ma Giacinto l'aveva già capito. E oggi quel gesto ha fatto sì che il presidente della Repubblica lo ritenesse degno di una medaglia d'onore. «Quando il prefetto a palazzo Ducale me l'ha consegnata - ha sussurrato ieri la figlia Maria - ho pensato: com'è strano il mondo. Avevo iniziato questo percorso cercando testimonianze e ricordi di quella vicenda che aveva inciso sulla vita di mio padre e che pensavo fosse una questione privata e invece, eccomi qui...».Vuol dire, questa signora, che pensava che questa storia sarebbe rimasta chiusa nella sua famiglia e invece ha trovato storie su storie, uomini e donne, anche preti, che stavano cercando di non disperdere questo patrimonio di eroismo nascosto. «Sì, perché - spiega - prima dei racconti di mio padre e poi quando ho iniziato a cercare altre voci non sapevo nulla. E vedevo che pochi altri sapevano di tutto questo». Non conoscevano quei volti di soldati italiani fieri che, quelli si "con sprezzo del pericolo" , avevano preferito restare fedeli al loro giuramento iniziale e non combattere più a fianco di tedeschi e fascisti. Giacinto Ledonne, di origini calabresi ma bolzanino di adozione, era stato chiamato alla leva a 18 anni. E subito era finito sul fronte greco albanese. A combattere, come lui raccontava dopo la guerra, un esercito "di povera gente che non ci aveva fatto nulla". Lì, Giacinto aveva cominciato a distaccarsi dalla retorica guerresca e imperiale tanto che, dopo l'armistizio e la cattura del suo reparto lasciato allo sbando da re in fuga, era finito nello Stalag 12 del campo. Lì, dopo mesi di privazioni e sevizie, aveva elaborato il suo "no". Che, ricorda oggi la figlia ma anche il presidente Mattarella che lo insignito dell'onorificenza nel giorno della Memoria, è stata una prima, personale, forma di resistenza. Non organizzata, non armata. Eppure, finalmente, riconosciuta come tale. E oggi la Repubblica vede in loro, in quei soldati che dissero no e scelsero il lager, o in quelli di Cefalonia o nei granatieri di Porta San Paolo a Roma, i primi resistenti. Uomini che hanno scelto da che parte stare. « Il nostro dovere è non far evaporare questa memoria.

Perchè quei sacrifici diano un senso anche alla nostra vita di oggi». (p.ca.)













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