«Campo fascista», cerimonia e polemiche 

Oggi gli Schützen a Prato Isarco. Lo storico Steurer: «Attenti alle strumentalizzazioni, non era un lager»


di Paolo Campostrini


BOLZANO. A Prato Isarco, dal '40 al '43 c'era un campo di prigionia. Costruito dagli italiani. Lo ha documentato Günther Rauch, portando così alla luce, in un suo libro, uno dei tanti luoghi dimenticati che punteggiarono la cartina d'Europa negli anni più bui del Novecento. Lasciati come fasciame nel mare dopo un terribile naufragio. E di cui si è ricomposta l'immagine nitida solo decenni dopo la guerra, come è accaduto per il lager di Bolzano. Ci passarono, lì, vicino a Cornedo, nei pressi dell'ex birrificio Blumau, tanti soldati alleati: inglesi, australiani, canadesi. E anche russi e jugoslavi. Tra questi ultimi, probabilmente, anche oppositori politici. Oggi i vertici dell'Heimatbund e gli Schützen apporranno una lapide in ricordo degli internati di questo, così viene definito, “campo di concentramento fascista” e presenteranno una ristampa del libro di Rauch, in cui la sua ricerca viene definita “scoperta sensazionale”. Che questa commemorazione sia oggi attuata dall'Heimatbund pone, inevitabilmente, una serie di interrogativi. Sia sul piano storiografico che, vista la collocazione dei promotori, su quello politico. «Il rischio non sta nella lodevole ricerca sul campo ma nella strumentalizzazione che potrebbe sottendere all'iniziativa» dice Leopold Steurer, storico sudtirolese. E perché? «Per la ragione che allora si porrebbe un grosso problema storiografico. La storia è una cosa, il suo uso politico un'altra».

E in commemorazioni come questa, dove si nasconde la possibile trappola?

Possiamo partire dal nome?

Prego.

Questo di Prato Isarco viene chiamato oggi "campo di concentramento". Bene. Così era definito anche dal governo italiano di allora, quello fascista, che decise nei primi mesi dall'entrata in guerra dell'Italia di attuare un piano di costruzioni di edifici per "internare" eventuali prigionieri nemici. Se ne occupò il sottosegretario Buffarini Guidi. Li chiamò campi di internamento. E quello altoatesino era il 118. Ne sorsero dunque altri in tutto il Paese mano a mano che i fronti di guerra si aprivano.

E perché partire dal nome?

Nella lingua italiana comune, quando oggi parliamo di campi di concentramento ci riferiamo in particolare ai lager nazisti. Campi di concentramento sono Dachau, Buchenwald. Ebbene, è fuorviante, e dunque rischioso, fare uso di quel termine, in una manifestazione politica.

Perché si rischia di mettere sullo stesso piano cose diverse?

È così, soprattutto nei fini. Premetto: nessuna intenzione, di sminuire o addolcire le terribili malefatte del fascismo. Autore di crimini odiosi. Ma, ad esempio, non ci sono testimonianze che in quel campo di prigionia siano avvenuti omicidi. O morti anche accidentali. Certamente non torture o sevizie. Quello che voglio dire è che la ricerca storica non fa politica. Nel senso che, prima dell'8 settembre, in Italia quei campi non furono teatro di azioni mirate alla violenza.

Che ne era dei prigionieri?

Venivano spesso usati in lavori nel campo civile. Allora i prigionieri in divisa erano trattati certamente non con i guanti ma non si raggiunse, in quegli anni, il livello di abbrutimento successivo, intendo dopo il '43.

La natura del campo di Prato Isarco è stata tenuta volutamente nascosta?

Non direi volutamente. La rete dei campi di prigionia italiani era in possesso degli storici quasi da sempre. È che non furono teatro di particolari azioni, diverse, intendo, dai campi predisposti dagli alleati nei loro Paesi. E anche il lager di Bolzano, non fu "volutamente" tenuto nascosto dopo la guerra. È che il momento storico era favorevole, fino a qualche decennio fa, a lasciarli nell'oblio. Troppe le colpe dell'una e dell'altra parte.

Il libro di Rauch?

Una buonissima ricerca.

E allora perché un certo retrogusto, in questa vigilia?

Premetto: gli italiani non sono "brava gente", usando un termine autoassolutorio...

Basti pensare alla guerra antipartigiana in Jugoslavia...

"...e poi l'Etiopia e tutto il resto. E pur senza scomodare la Repubblica sociale. Ma quando si prova a parificare situazioni diverse, senza chiarirne i contorni, dicendo, in sostanza: c'erano sì i lager ma c'era anche il campo di Prato Isarco, ecco che si rischia non tanto di far salire nel livello dell'orrore i campi di internamento italiani, che in fondo se le meriterebbero, quando di far scendere, quasi banalizzandoli Dachau, Buchenwald, e anche via Resia con Misha Seifert e i suoi accoliti.

Il fascismo in Alto Adige ha aperto enormi ferite.

Le ferite sono altre. E Prato Isarco sarebbe bene lasciarlo agli storici.













Altre notizie

l’editoriale

L’Alto Adige di oggi e di domani

Il nuovo direttore del quotidiano "Alto Adige" saluta i lettori con questo intervento, oggi pubblicato in prima pagina (foto DLife)


di Mirco Marchiodi

Attualità