Dal Guatemala a Bolzano contro i muri dell’egoismo 

Don Angelo Esposito, missionario in Centro America, è ora in visita in Alto Adige «Anche qui si crede di fermare i migranti bloccando i barconi: non funzionerà»


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Sono tornato dopo quattro anni ed ho trovato un Paese cambiato. A Napoli come a Bolzano ci sono più indifferenza, più individualismo, più egoismo. In Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti si pensa di risolvere il problema dei migranti alzando i muri e bloccando i barconi: è un’illusione. Nessuno riuscirà mai a fermare chi scappa da guerre e fame». Padre Angelo Esposito, 45 anni, originario di Portici, missionario in Guatemala da 10 anni, parla per esperienza diretta: «Il Paese, ricchissimo di risorse naturali e al tempo stesso poverissimo, è la porta d’accesso verso il sogno americano: si calcola che passassero di lì circa 3 mila migranti al mese. Con la presidenza Trump, i passaggi sono un po’ calati, ma non perché non si parta più. Semplicemente si scelgono altre vie. Quanto costa il viaggio verso gli Stati Uniti? Ottomila dollari. Partono anche da Tacanà, dove c’è la mia missione: sono giovani e anche giovanissimi di 12-14 anni. Prima di intraprendere il viaggio spesso vengono da me a chiedere la benedizione. Cerco di convincerli a non partire, non serve. Qualcuno non arriverà mai a destinazione; altri mi telefonano, magari dopo due-tre mesi, e mi dicono che sono riusciti ad entrare negli Stati Uniti».

Padre Angelo in questi giorni è a Bolzano ospite della sorella Maria e del cognato Massimo Ninno che, durante l’anno, partecipano ai mercatini, dove mettono in vendita piccoli prodotti dell’artigianato guatemalteco. Il ricavato è destinato all’associazione “Hermana tierra”, fondata da padre Angelo nel 2011 e da un gruppo di cattolici e laici, per realizzare progetti che possano dare una speranza ad un popolo oppresso, emarginato ne e sfruttato.

Dopo un’esperienza in Kenia; un’altra in un orfanotrofio in Romania, 10 anni fa il sacerdote napoletano è arrivato in Guatemala. Doveva rimanerci poche settimane, massimo qualche mese, ma ha deciso di restare lì ad aiutare la gente di Tacanà: 120 mila abitanti che vivono a 2.300 metri di quota, al confine col Messico.

«L’80% della popolazione di quel Paese vive nella povertà; il 50% dei bambini soffre di denutrizione. Per fare un esempio: la paga sindacale di un’infermiera corrisponde a circa 300 euro al mese, ma si calcola che a una famiglia per vivere ne servano 450. Davanti a questi numeri qualcuno pensa davvero di poter fermare le migrazioni?».

Se la situazione è senza speranza, che senso ha restare lì?

«L’obiettivo è quello di cambiare qualcosa. Partendo dai bambini di 5-6 anni e puntando sulla scuola primaria, cercando di offrire loro un’educazione complessiva. Oltre che sulla scolarizzazione, lavoriamo per migliorare la salute in particolare dei più piccoli: in tre anni sono passati dal nostro Consultorio medico 25 mila bambini. E poi portiamo avanti diversi progetti che in comune hanno l’autosostenibilità».

Data la situazione, tutti i vostri sforzi non sono in fondo una goccia in un mare di disperazione?

«Stiamo vedendo dei cambiamenti. Abbiamo ricevuto la visita, tra gli altri, del direttore della Fao e dell’ambasciatore italiano che hanno riconosciuto che il seme che abbiamo gettato, comincia a dare qualche frutto. È per questo che resto in Guatemala».

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