De Giorgi: Nepal, aiutiamo a ricostruire

L’ex primario del pronto soccorso è appena rientrato dalle zone devastate il 25 aprile dal terremoto


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Adesso dobbiamo aiutarli a tirar su delle case sicure: pilastri in cemento armato e tetto di zinco. Abbiamo già i progetti: quattro metri per quattro per due persone, il doppio per una famiglia di quattro. Bisogna fare presto perché tra due mesi comincia la stagione dei monsoni e in queste condizioni, la popolazione che vive nelle zone di montagna, nella fascia pre-himalayana, non ce la farà a sopravvivere alle piogge». Franco De Giorgi, 63 anni, primario del Pronto soccorso dell’ospedale San Maurizio fino al giugno del 2011, è rientrato a Bolzano da pochi giorni da una missione nelle zone del Nepal devastate dal terremoto del 25 aprile.

Membro dell’associazione Medici dell’Alto Adige per il mondo ha sempre amato la “prima linea” ed è con questo spirito che in passato è stato impegnato in tre lunghe missioni in Africa: dall’83 all’’85 in Guinea Bissau, dal ’92 al ’95 in Guinea Conakri e dal ’95 al’98 in Madagascar. Spesso assieme a lui anche la moglie infermiera e i due figli.

Dove ha lavorato in queste due settimane?

«Nell’ospedale di Dhulikhel, ad una quarantina di chilometri da Kathmandu. Una struttura di buon livello con circa 350 posti letto che si è trovata ad ospitare fino a 1600 pazienti. Medici ed infermieri sono stati bravi a gestire l’emergenza. Come associazione avevamo già dei rapporti con il direttore della struttura. Anche i vigili del fuoco altoatesini così come il Soccorso alpino hanno rapporti di collaborazione con le associazioni nepalesi e questo ha reso tutto più semplice».

A quasi due mesi dal terremoto com’è oggi la situazione nel Paese amato anche dagli altoatesini appassionati di trekking e spedizioni himalayane?

«La gente vive ancora nelle tende, perché la terra continua a tremare. Chi abita a Kathmandu può contare sull’assistenza delle organizzazioni internazionali arrivate nella capitale; mentre è in grossa difficoltà chi vive - e sono la maggior parte - nelle zone di montagna, dove il terremoto ha distrutto le case, abbattuto i piccoli ambulatori e spazzato via le strade. La valle del Langtang, dove sono morti i tre trentini, è stata devastata, il paese di Langtang cancellato prima dal sisma e poi da una gigantesca valanga: sotto ci sono centinaia di morti. Senza vie di comunicazione, per altro già piuttosto precarie prima, è difficilissimo portare soccorsi. Noi siamo saliti con le jeep fino dove era possibile, poi a piedi. Solo in un caso abbiamo usato l’elicottero. I “ricchi” sono scesi dalla montagna a Kathmandu, i poveri, che sono la maggioranza, non hanno alternative: devono rimanere lì a coltivare i campi di riso, per cercare di sopravvivere».

In queste condizioni non sarà facile neppure ricostruire le case.

«Infatti non lo è. Però ci siamo già organizzati: noi forniamo il materiale, loro provvederanno a trasportarlo e a costruire. È gente abituata alla vita dura, si sono rimboccarti le maniche e vogliono ricominciare. Le scuole hanno riaperto da poco sotto le tende e, nonostante molti abbiano perso tutto, ho trovato grande serenità. Che non significa rassegnazione».

Con quali soldi la sua associazione pensa di contribuire alla ricostruzione?

«Con i soldi raccolti e che continuiamo a raccogliere grazie alla generosità degli altoatesini. Duecentomila euro li abbiamo inviati subito per consentire all’ospedale di Dhulikhel di acquistare farmaci e materiale sanitario. Ne abbiamo altri 100 mila da destinare alle costruzioni, credo che potremo contare anche sull’aiuto di Provincia e Regione».

Quando pensa di tornare lì?

«Settembre-ottobre compatibilmente con gli impegni in Burkina Faso dove collaboro ad un programma contro la malnutrizione dei bambini».

Cosa la spinge a partecipare a questo tipo di missioni?

«Al primo posto non ci metterei lo spirito umanitario, ma la ricerca di cose nuove, la voglia di mettersi alla prova in situazioni complesse. E poi mi piace lavorare senza dover fare i conti con l’incubo della burocrazia».

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