Ezio Zermiani: «La mia vita tra Senna e Ferrari ai box della Formula 1»

Il re dei giornalisti di automobilismo. Vent'anni a bordo pista: «Per strappare un'intervista ho fatto di tutto»


Mirco Marchiodi


BOLZANO. «Vroooom», il rumore di un bolide di Formula 1 che passa sul rettilineo. È questa la suoneria scelta da Ezio Zermiani per il suo cellulare. E dopo una vita passata ai box (e in pista) come inviato speciale della testata sportiva della Rai non poteva essere altrimenti. Zermiani, 67 anni, bolzanino doc, il re dei giornalisti italiani di Formula 1, oggi è in pensione. E' tornato a Bolzano. Nella sede Rai di piazza Mazzini gli hanno lasciato a disposizione l'ufficio, pieno zeppo dei "pass" degli autodromi di tutto mondo. «Il problema - racconta - è che ho da fare quasi più cose adesso di quando lavoravo...». C'è la rievocazione della Bolzano-Mendola da organizzare (Zermiani è presidente della Scuderia Dolomiti), ma anche una nuova idea editoriale da lanciare, «un settimanale bilingue, che si rivolga in particolare ai giovani». E a proposito di giovani, a pochi giorni dal festival studentesco, non si può non ricordare che Zermiani del festival è stato il presentatore storico. «Facevo lo studente anch'io - ricorda -. Eravamo un bel gruppo, c'erano anche Alexander Langer e Reinhold Messner, di cui sono rimasto molto amico. Quello era un momento difficile per la convivenza in Alto Adige e siamo riusciti a lanciare un'iniziativa importante. Ne parlavano tutti i giornali, anche quelli nazionali. Cambiavamo teatro ogni sera, io ero il Pippo Baudo della situazione. È lì che ha avuto inizio la mia carriera giornalistica».

In che senso?
«Nel senso che in giuria c'erano dei giornalisti. Mi chiesero di iniziare a collaborare con la Rai, prima alla radio, poi in televisione».

Si occupava già di sport?
«No, all'inizio facevo la giudiziaria. Mi ricordo casi importanti, come il delitto della perpetua del parroco Steinkasserer, ma una delle mie soddisfazioni personali resta il caso Scicchitani».

L'uomo che fu accusato di aver ucciso il portiere dell'Odar di via Stazione...
«Già. Rischiava l'ergastolo. L'alibi glielo trovammo io e Alexander Dander, che era il suo avvocato. Scicchitani diceva di essere stato a Brescia. Con Dander girammo tutti i locali di Brescia fino a quando arrivammo a un convento di frati. Scicchitani era stato effettivamente lì. Fu necessario chiedere il permesso al Vaticano per far testimoniare i frati. Ma alla fine Scicchitani fu assolto».

Da cronista di giudiziaria a inviato di Formula 1: come avviene il passaggio?
«È il 1978 e Sergio Zavoli mi chiama a Milano come responsabile del nord Italia per il Gr1. La redazione si trovava allo stesso piano di quella della Domenica Sportiva. Spinto dalla mia passione per i motori ho iniziato a fare qualche servizio di motociclismo. Erano i tempi di Graziano Rossi, il papà di Valentino. Noi cronisti aspettavamo a centro pista, dopo la gara i piloti ci raggiungevano lì. Poi si ripartiva subito in elicottero, che atterrava proprio sul tetto della sede Rai di piazza Mazzini. Da lì mandavamo poi il servizio a Milano».

E la Formula 1?
«Dopo le moto sono passato al rally. Poi, sempre nel 1978, alla Formula 1».

E s'inventa il giornalismo d'assalto in pista...
«Ai miei tempi era diverso. C'erano tre televisioni che seguivano il mondiale, non 36 come oggi. I giornalisti in pista però non potevano starci. Poi arriva il Gran Premio d'Austria del 1982...».

E cosa succede?
«Vince Elio De Angelis, di un soffio. Io mi ero messo una tuta dell'Orf, la televisione austriaca, e in quel modo ero riuscito ad arrivare ai piedi del podio. Inizio a fare l'intervista al pilota, ma quando i poliziotti mi scoprono mi buttano letteralmente giù dal palco. De Angelis s'infuria, "lo avete ammazzato", urla. Poi scende e mi dice che mi deve un regalo. Io gli ho semplicemente chiesto di farsi intervistare prima della partenza. E così sono iniziate le mie interviste a bordo pista».

Oggi sarebbe impensabile...
«È vero, i piloti ormai parlano solo attraverso gli uffici stampa. Io mi sono inventato le interviste a bordo pista e poi la figura dell'inviato ai box. Una scelta obbligata, perché era l'unico modo per me di restare nella Formula 1, ma fu una scelta azzeccata. Perché il cuore della corsa è ai box». 

Vent'anni di Formula 1: quali sono i piloti con cui ha avuto un legame più stretto?
«Nelson Piquet, estroverso e spiritoso. Quando ha visto che intervistavo De Angelis prima della partenza, nel momento in cui c'era più attenzione, ha preso la palla al balzo. Poi Ayrton Senna, più schivo, molto religioso e poco capito dai giornalisti. I due brasiliani si beccavano. Infine Michele Alboreto, un ragazzo sensibile, molto attento. Nel 1985 poteva vincere il mondiale, lo perse non per colpa sua, ma per colpa della Ferrari. Ma il "Vecchio" (così Zermiani chiama Enzo Ferrari, ndr) si arrabbiò con lui perché faceva una rubrica televisiva assieme a me. "Va a fare cinema", diceva. E poi cercò di farmi licenziare».

Invece....
«Invece venni confermato e alla fine il "Vecchio" si accorse di aver sbagliato. Mi fece chiamare, mi chiese se avrei accettato il premio "Dino Ferrari". Ad una condizione però: "Il premio - mi disse - non può riceverlo finché io sono in vita. I miti non possono sbagliare"».

Che rapporto aveva con Enzo Ferrari?
«Era un padre-padrone, guai a toccargli la sua creatura. Era abilissimo a spostare l'attenzione quando la Ferrari perdeva».

E con i piloti?
«Il mondo della Formula 1 si viveva fino in fondo. Oggi, finita la gara, i piloti tornano a casa subito col jet personale. In passato si restava assieme. Il Gran Premio d'Australia, che oggi è la gara d'apertura, una volta era l'ultimo Gran Premio dell'anno. Prima ci si fermava tutti in Polinesia, piloti e giornalisti. Nascevano amicizie, i rapporti erano più personali».

Quest'anno il mondiale chi lo vince?
«La Ferrari è fortissima, ma sembra avere qualche problemino di affidabilità. E poi ha avuto alcune defezioni importanti».

Schumacher...
«Era il migliore, non c'è dubbio. Ma la Ferrari ha perso anche il progettista e soprattutto Ross Brawn, lo stratega, la figura decisiva».

Il suo pilota preferito?
«Raikkonen è quello che come istinto mi piace di più, anche se è ancora più freddo di Schumacher. Ma il contatto umano in questa Formula 1 manca sempre di più. Peccato, perché i piloti forti non mancano, anzi sono più che ai tempi di Schumacher. Ma probabilmente è un problema generazionale, tra i computer e gli sms ci si parla sempre di meno».













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