LA STORIA

Giorgio Marincola, a Bolzano le riprese del film sul partigiano italo-somalo

Le riprese al muro del lager di Bolzano. La vita di Giorgio, il partigiano di origine somala, uno tra gli ultimi internati del campo di via Resia. Ucciso a Stramentizzo nell’ultima strage nazista


Paolo Campostrini


Bolzano. Ha visto il muro, Antar Marincola. Ma non l’ha guardato come facciamo oggi tutti noi. Dice: "Qui dentro, nel lager, è passato mio zio...". Era primavera, allora, nel 1945. Suo zio si chiamava Giorgio e aveva poco più di vent’anni. Era arrivato da San Vittore qualche mese prima, lui e gli altri compagni catturati da poco. Primo resistente di colore, Giorgio Marincola: papà militare in servizio a Mogadiscio, mamma somala, aderisce giovanissimo al Partito d’Azione e si unisce alle formazioni partigiane del Biellese.

Quelle di "Giustizia e Libertà". A Bolzano, in cella, aveva poi rivisto i suoi compagni, perché coloro che erano stati presi in quella zona del Piemonte finivano tutti qui. Ma la guerra stava finendo. Anzi, era finita: in via Resia arriva la Croce Rossa e libera tutti. Dice oggi Antar: "Uno pensa: bene, arrivederci a tutti, me ne torno a casa. Invece no, mio zio non lo ha fatto". La ragione? Aveva sentito che formazioni tedesche in ritirata tardavano a consegnare le armi. In alcune valli trentine si erano sparse voci di violenze, di uccisioni. Giorgio non ce la fa a voltare le spalle e ci va.

Sale verso la val di Fiemme, incappa in gruppi di sbandati della Wehrmacht, forse ucraini, lo prendono, lo mettono al muro. Viene ucciso a Stramentizzo, nell'ultima strage nazista in Italia, il 4 maggio del '45. Aveva 23 anni. Gli viene concessa la medaglia d'oro al valor militare. "Oggi che stiamo vivendo una nuova stagione di paure, anche di reclusione a volte, forse storie come quella di mio zio Giorgio possono dirci qualcosa a proposito della necessità di essere sempre vicino a chi soffre, di essere solidali". E di non pensare solo a se stessi, vorrebbe aggiungere Antar. Il'atra mattina era in via Resia, con stretto in mano il libro che parla di suo zio, "Razza partigiana".

Accanto a lui, lungo il muro che oggi è un passaggio della memoria, un regista, Armin Ferrari, un produttore, Roberto Cavallini, e un direttore della fotografia, Harald Erschbaumer. La ragione? Il muro è il set di un documentario, "A noi rimane il mondo", che parte dal lavoro di un collettivo di scrittori italiani, il "Wu Ming" (in mandarino "senza nome") che si propone di scandagliare il tema della resistenza ma anche delle resistenze, intese in senso culturale, artistico e pure politico. Nato da una costola del collettivo letterario fondato nel 2000 e che ha subito abbracciato la causa della narrazione sperimentale, il film-documento vuole offrire storie altrettanto collettive di impegno.

Tra gli scrittori coinvolti, appunto, anche Antar Marincola. E tra le storie di impegno pure quella di Giorgio, il "partigiano scuro". Che racchiude in se una serie di riflessioni aperte, sia sul senso della resistenza reale, concreta, a mondi di violenza e di morte come quello delle dittature fasciste e naziste, sia, in quanto "scuro", anche sui mondi di oggi, legati alla nuova immigrazione, alla diversità, alle difficoltà dell'integrazione. Insomma, Marincola come figura in grado di raccogliere e specchiare tutte le contraddizioni del passato e del presente. "A noi rimane il mondo-Wu Ming e l'arte della resistenza radicale", per Armin Ferrari, il regista "vuole raccogliere la storia ma anche le storie delle persone". Sarà un viaggio pure nella memoria dei luoghi, il documentario. Ieri la troupe era in via Resia, a cogliere ancora gli echi del muro del lager e di chi vi era passato e morto. Poi andrà lungo l'Adige. "Proviamo a ripercorrere l'ultimo viaggio di Giorgio - spiega il nipote - provando a intuire i suoi passaggi per strade e sentieri".

Fino a raggiungere Stramentizzo, il lago e le ultime ore del partigiano Marincola. "Ci sembrava il volto ideale per iniziare questo viaggio nelle storie anche delle nuove resistenze" aggiunge Ferrari. Tra memoria di una stagione di lotta e di eroismi e un'altra, quella contemporanea, dentro questioni migratorie e post-coloniali. Come colonia era la Somalia, il 23 settembre del 1923 quando Giorgio nacque a Mahadaay Weyn, un presidio militare italiano a nord di Mogadiscio, da Giuseppe, un sottufficiale calabrese, e Aschirò Hassan. Due anni dopo nacque la sorella, Isabella. E il papà, a differenza di tanti figli nati dalle unioni tra soldati e ragazze africane, riconobbe i due bambini, li condusse a casa e divennero cittadini italiani. E Giorgio, italiano e cittadino lo rimase fino all'estremo sacrificio.

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