Lo studio

Gli hikikomori sono un migliaio: a 12 anni chiusi nelle loro stanze 

La prima ricerca altoatesina. Crais e La Strada presentano lo studio condotto nella scuola, nella sanità e nel sociale. Dai gravi risvolti dei lockdown al ruolo di internet, i risultati parlano di un mondo di «invisibili» destinato a crescere


Sara Martinello


BOLZANO. Hikikomori, o “ritirati sociali”, o “eremiti metropolitani”. In Italia le stime parlano di 100 mila persone, in Alto Adige si ritiene che il fenomeno ne riguardi centinaia, quasi un migliaio. Impossibile essere più precisi, perché parliamo di persone “invisibili”. Già alle elementari si possono avere le prime avvisaglie di un fenomeno che si può concretizzare verso i 12-14 anni. «I lockdown e la pandemia hanno acutizzato questo fenomeno, destinato a crescere nei prossimi 10 anni. Nella prevenzione svolgono un ruolo fondamentale il lavoro di rete tra servizi e l’informazione nelle scuole», nota Alberto Malfatti, psicologo clinico e coordinatore del progetto “Invisibili” dell’associazione La Strada.

Tra l’ottobre del 2020 e il settembre 2021, La Strada e il Coordinamento delle strutture sociopedagogiche della provincia di Bolzano (Crais), in collaborazione con la cooperativa Explora e con la supervisione del professor Urban Nothdurfter, hanno condotto la prima ricerca sociologica altoatesina sul fenomeno dei giovani in età scolare che vivono ritirati dalla società.

Lo studio è stato presentato pochi giorni fa alla presenza di Marco Crepaldi, fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, e dell’assessora provinciale al sociale, Waltraud Deeg. Capofila della ricerca e del progetto operativo è Claudio Ansaloni, referente del Crais e soprattutto promotore del progetto “Invisibili”, che mette in campo iniziative ad hoc che possano accompagnare i più giovani sia sul piano psicologico sia su quello educativo.

Venti i presenti in sala, 130 le persone collegate. Francesco Campana, progettista nel centro studi di La Strada e coordinatore del gruppo di ricerca, evidenzia «un crescente interesse della comunità educante. Nel corpus di interviste, 40 in totale, 20 sono quelle a referenti scolastici. Per la restante metà sono stati interpellati attori rilevanti con ruoli dirigenziali nella sanità, nel sociale, nella scuola e nella giustizia». Il campione copre l’intera provincia: tra gli obiettivi c’era quello di capire se ci siano sfaccettature tra centro e periferia, ma come per il profilo socioeconomico non è stato possibile tracciare un quadro chiaro.

Ad esempio, se gli studi nazionali parlano di famiglie altoborghesi che proiettano sui figli aspettative elevate, il dato altoatesino sembrerebbe riferirsi a un ceto medio-basso. Ma forse le famiglie più agiate si rivolgono a specialisti privati e sfuggono all’individuazione. Sulla definizione di “ritiro sociale” non c’è uniformità. Perciò le persone intervistate non sono sempre state in grado di quantificare con precisione e affidabilità i casi a loro noti. Soprattutto nel mondo della scuola, fanno notare i ricercatori, la variabilità tra le diverse situazioni rende estremamente difficile risalire ai reali motivi di un abbandono scolastico.

E il Covid? «Tutti gli intervistati affermano che i lockdown hanno intensificato e acuito il fenomeno. Il ripetuto on-off dell’istruzione ha scoraggiato ancor più chi già soffriva», rileva Campana. Malfatti aggiunge: «La pandemia ha scoperchiato qualcosa che già c’era. Ha permesso di restare lontani dagli altri, l’ha legittimato».

Le cause. Lo psicologo spiega che i fattori rientrano in quattro ambiti. Possono essere di natura psicologico-caratteriale, oppure relazionale – e il bullismo dà una forte spinta al ritiro sociale. Fattori familiari/ambientali possono essere l’assenza del padre, una forte presenza della madre che forma adolescenti non “allenati” a gestire situazioni difficili, classi che escludono e prendono in giro, insegnanti che mettono l’accento sul voto ed esasperano la competizione. Infine, i fattori macrosociali «della società della performance, dell’adultizzazione dei bambini e dell’infantilizzazione degli adolescenti, una società basata su competizione e individualismo».

Modelli che ripetono «Se vuoi puoi», racconti di personalità non comuni («La seconda laurea a 17 anni») e di tappe bruciate, corpi adeguati alle richieste dell’economia? «Il paragone con certi modelli – così Malfatti – produce idealizzazione e frustrazione. Vedere queste “vetrine” fa più male a chi vive un ritiro sociale che ad altri: spesso siamo di fronte a giovani con un’intelligenza sopra la media che elaborano un forte senso critico e per contro elaborano una sorta di protesta contro questo tipo di società. Abbiamo notato che quando si ritrovano fra di loro si sentono meno soli». Qualche genitore potrebbe staccare la rete internet per proteggere il proprio figlio. «Sconsigliamo di farlo, il rischio è di acuire il malessere. Internet non va demonizzato. Noi stessi cerchiamo di arrivare a certe situazioni anche tramite internet, ad esempio coi videogiochi online».

Punto importante, il corpo che cambia. «Doversi mostrare può essere una sfida per l’adolescente. Cambiamenti rapidi possono rendere difficile mentalizzare il proprio corpo, e il senso di svalutazione di sé può produrre il “nascondo me stesso” come soluzione».

Va tenuto a mente che la ricerca altoatesina è riferita a persone in età scolare. Malfatti evidenzia che «tra quelle seguite dal progetto Invisibili, per il 15 per cento si tratta di maggiorenni. Intercettarli resta difficile, se non c’è una libera iniziativa della famiglia. La scuola invece può svolgere più facilmente un ruolo attivo, a cominciare dalle assenze e da giustificazioni spesso psicosomatiche: un mal di pancia, il mal di testa, l’ansia».

Per sensibilizzare il pubblico, Invisibili va proprio nelle scuole. Sono in programma un laboratorio su “Covid, ritiro sociale e isolamento” con l’istituto comprensivo Bolzano 3 e webinar con genitori e insegnanti. Con l’associazione La Strada ha attivato percorsi diversi, dalla visita a casa al mantenimento dei rapporti coi ragazzi attraverso attività ludiche, centri giovanili e volontariato. «Percorsi che non lasciano mai soli i ragazzi – dice Malfatti – a meno che non lo vogliano loro. Da una situazione di ritiro sociale si può uscire, progressivamente. Un educatore che lavora con noi ha avuto un ritiro sociale di tre anni. Spesso si fa il paragone coi disturbi del comportamento alimentare, perché serve un monitoraggio prolungato nel tempo».













Altre notizie

l’editoriale

L’Alto Adige di oggi e di domani

Il nuovo direttore del quotidiano "Alto Adige" saluta i lettori con questo intervento, oggi pubblicato in prima pagina (foto DLife)


di Mirco Marchiodi

Attualità