Il medico-alpinista del San Maurizio con il «K2» nel cuore

Leonardo Pagani ha seguito le orme del padre Guido medico della spedizione del ’54; lui era in quella del 2004


di Antonella Mattioli


di Antonella Mattioli

BOLZANO

«Con la scomparsa, tra fine dicembre e metà gennaio, degli ultimi due sopravvissuti della spedizione italiana al K2 - Ugo Angelino, biellese, ed Erich Abram, bolzanino - si chiude una pagina di storia dell’alpinismo. E io oggi mi sento un po’ il “custode” dei ricordi di quella mitica spedizione». Quando si parla di K2 Leonardo Pagani, 53 anni, piacentino d’origine e bolzanino d’adozione, medico all’ospedale San Maurizio, diventa un fiume in piena. E il motivo è presto detto: «Sono cresciuto a pane e K2».

Per un gioco di strane coincidenze, il destino di Leonardo si è intrecciato a quello di suo padre Guido, scomparso nell’’88. Entrambi medici - il padre è stato primario del reparto di dermatologia dell’ospedale di Piacenza, lui lavora nel reparto Malattie infettive - entrambi malati di montagna: il padre, accademico del Cai, nel 1954 è stato il medico della spedizione al K2 organizzata da Ardito Desio; Leonardo nella spedizione del 2004, organizzata da Agostino Da Polenza, per ricordare i 50 anni.

Il giorno dei funerali di Erich Abram era in Duomo per l’ultimo saluto all’alpinista, conosciuto quando era ancora un bambino. «Per molti anni - ricorda - i membri della spedizione si ritrovavano, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, per una rimpatriata: unico assente, per le polemiche seguite al rientro dalla conquista del K2, Walter Bonatti. Mio padre mi portava sempre con sè e io restavo incantato a sentire quei racconti. E quando anche lui se n’è andato, ho continuato a partecipare assieme a mia madre Imelde».

Ha imparato a scalare, venendo in vacanza con la famiglia in Val Gardena a Natale, Pasqua e tre mesi in estate; si è innamorato della vetta himalayana sentendo i racconti di chi c’era stato.

«E così quando per l’anniversario dei 40 anni della scalata don Bergamaschi, un sacerdote bolognese appassionato di montagna, ha organizzato una spedizione, ho colto al volo l’occasione. L’avventura è durata tre mesi ed era una spedizione vecchio stile, dal versante cinese però. Io ero il responsabile della parte sanitaria. Ricordo ancora, come fosse ieri, il giorno in cui assieme ad un collega al campo base con davanti la parete nord del K2, abbiamo allestito una sorta di sala operatoria con quello che avevamo ovviamente, per ridurre la frattura ad un braccio di un alpinista di una spedizione basca».

Poi, nel 2004, la chiamata di Agostino Da Polenza, per ricordare i 50 anni dalla conquista. Pagani parte di nuovo: «Per me è stata un’emozione grandissima, ritrovarmi negli stessi posti in cui era stato mio padre e di cui gli avevo sentito parlare tantissime volte. Lì mi sono reso conto della grandezza di quel gruppo di alpinisti, arrivati in vetta con i maglioni di lana che non si asciugavano mai, con gli scarponi di cuoio perennemente bagnati perché allora non esisteva ancora il Goretex, con attrezzature tanto modeste quanto pesanti».

È sul K2 che il medico bolzanino ha conosciuto Karl Unterkircher, il fortissimo alpinista gardenese. E ne è nata subito una bella amicizia.

«Capitava spesso - ricorda - che quando non era impegnato con il suo lavoro di guida, mi arrivasse una sua chiamata, per andare a scalare assieme. Impossibile rinunciare, perché tra noi c’era feeling: poche parole e tante emozioni condivise sulle montagne dell’Alto Adige».

Si commuove quando pensa all’ultima chiamata dell’amico: «Mi telefonò da Milano, prima di partire per il Nanga Parbat: era felice, voleva salutarmi. Ricordo che cercai di convincerlo a non andare. Ovviamente non ci sono riuscito. Ma quando ho chiuso la telefonata mi sono messo a piangere: avevo un brutto presentimento». Unterkircher è morto il 15 luglio 2008 precipitando in un crepaccio dell’insidiosa montagna himalayana.

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