L'INTERVISTA maddalena fingerle 

Il mio libro sulle parole e una città  bilingue per finta 

La scrittrice bolzanina. Con “Lingua Madre” Maddalena Fingerle è in finale al prestigioso premio Calvino. «Ho voluto sondare l’ipocrisia e la retorica di un “modello” con molte pecche»



LUCA DE MARCHI

Bolzano, Maddalena Fingerle ha 27 anni. Nata e cresciuta a Bolzano, dopo la maturità classica si è spostata a Monaco per studiare germanistica. Ora sta seguendo un dottorato di ricerca in italianistica sulle strategie di evasione in Torquato Tasso e Giovan Battista Marino. Il suo primo romanzo, “Lingua madre”, è finalista al premio Calvino, che verrà assegnato oggi.

Come si sente?

Oddio, devo ancora capire che non è uno scherzo, che non ho capito male io, che non sia un caso di omonimia.

Cos’è per Lei la scrittura?

La scrittura è il luogo in cui ho sempre dato sfogo alla mia ossessione per le parole, per la pronuncia, per i suoni, per le immagini. Quando ero piccola mi affascinavano e mi appassionavano le parole nuove e il loro suono. Vorrei raccontare ciò che mi impressiona e al tempo stesso mi affascina, può essere un modo di parlare, un colore, ma anche la malattia mentale, la follia, il trauma. Sono temi che tratto da vicino, perché sono l’esasperazione di piccole ossessioni che in fondo abbiamo tutti. Invece se dovessi raccontare questi temi dando loro per esempio il nome di una malattia mentale, allora sì, non riguarderebbero tutti e sentirei una barriera che mi impedirebbe di muovermi liberamente.

Bolzano e l’Alto Adige abitano il suo romanzo e le due lingue sono il nucleo del racconto. Ossessioni anche queste?

Dipingo Bolzano con i colori del dubbio, della paura e dell’ossessione. Sono parti che esaspero non perché ho qualcosa contro Bolzano e il suo bilinguismo, anzi, ma per far emergere l’ipocrisia e la retorica di quel finto bilinguismo (a volte addirittura trilinguismo) che spesso emerge e che è davvero un peccato.

Cosa cambierebbe?

Sogno le scuole in comune, per esempio, e non separate. Invece io, che faccio parte della generazione degli anni Novanta, ho conosciuto i primi sudtirolesi di madrelingua tedesca solo una volta arrivata a Monaco. E questo perché non avevano frequentato le scuole italiane e io non avevo frequentato quelle tedesche.

Tornando al linguaggio, qual è l’italiano che si parla in Alto Adige?

A me piacciono tanto le città con un carattere linguistico definito, riconoscibile all’interno di un dialetto, per esempio. A Bolzano questo aspetto non credo ci sia o comunque è molto debole – almeno per l’italiano, perché per il dialetto sudtirolese tedesco il discorso è molto diverso. Diciamo che se a Bolzano si parlasse qualcosa come il romanesco, il siciliano o il napoletano mi piacerebbe tantissimo. Poi se al posto delle montagne ci mettessimo pure il mare sarebbe perfetta.

Una lingua poco definita e troppo pura, che forse diventa il simbolo di un’identità incerta. Chi è il protagonista del romanzo?

Paolo Prescher – anagramma di “parole sporche” – che vive in relazione a un’ossessione: le parole devono essere pulite e non sporche. Per questo le lingue sono forse ancora più protagoniste di lui.

Le parole si sporcano?

Si sporcano quando non dicono quello che devono dire, quando non sono sincere, quando qualcuno con cui il protagonista è in conflitto le pronuncia. Gli oggetti e il mondo di Paolo sono le parole. Il padre soffre di mutismo, quindi c’è anche la lingua nella sua assenza.

Quando ha capito che questa era la storia che voleva raccontare?

In due momenti. Il primo era a un incontro con alcuni dottorandi in Germania, quando mi dissero per l’ennesima volta che se venivo da Bolzano allora dovevo certamente essere bilingue, ma che era strano non avessi un accento sudtirolese – poi invece da Roma in giù spesso si stupiscono che io conosca così bene l’italiano. Il secondo momento fu invece a Monaco, a una cena con carissimi amici di Milano durante la quale, leggermente brilli, litigammo sul numero di docce giornaliere da considerarsi sane. La storia l’ho costruita sostanzialmente a partire da questi due momenti.

Qual è la sua “lingua madre”?

Sono cresciuta in una famiglia italiana, mio nonno era tedesco, ma non l’ho conosciuto. Per me l’italiano è la lingua che ho imparato da piccola, di stampo filosofico e astratto che sentivo complessa e affascinante, è quella narrata delle storie, ma anche e soprattutto quella di mia nonna, romana che vive a Bolzano, con una dizione curatissima e una grande attenzione per la scelta delle parole.

E la sua "Heimat"?

Non ho un concetto di “Heimat”, non lo sento mio. Posso sentirmi a mio agio in un luogo, questo sì, ma spesso dipende dalle persone più che dal luogo fisico.

Le letture che più l’hanno accompagnata in questi anni?

Ci sono cinque personaggi di cui mi sono innamorata. Venere dell’Adone di Giovan Battista Marino, perché riesce a capovolgere la realtà e a passare dalla parte della ragione con una sfacciataggine e una bellezza che le invidio tantissimo. Angelica del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. La Marchesa de Merteuil delle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Clawdia Chauchat che sbatte le porte nel Zauberberg di Thomas Mann. Clorinda, nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, mentre sceglie l’armatura scura. Noto solo ora che sono tutte donne.













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