«Io e Marchesi, nel rifugio di Fié» 

Grai ricorda il grande chef: a casa mia ha scritto il libro che ha cambiato la cucina


di Angelo Carrillo


BOLZANO. «Principe della cucina e amico dell’Alto Adige». Così ricorda Gualtiero Marchesi, un altro grande protagonista della cultura gastronomica italiana del 900 che la Milano della gastronomia nobile l’ha frequentata e conosciuta bene. Giorgio Grai, winemaker cresciuto in templi della ristorazione come il mitico Giannino di Milano, Gualtiero Marchesi lo conobbe ben prima del 1977 quando il traghettatore della “Nuova Cucina” in Italia apriva il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva a Milano. «Lo dovetti confortare, perché luglio e agosto a Milano non sono proprio il periodo migliore per aprire un nuovo ristorante - la città si era svuotata per le ferie racconta Grai e Marchesi era seriamente preoccupato – e io gli dissi di aspettare il rientro dei milanesi a settembre, e così fu». Il nuovo ristorante prese subito il volo. Marchesi allora aveva 47 anni. Era passato dal ristorante di famiglia all’albergo il Mercato, al Vittoria con la moglie, per avventurarsi in un nuovo apprendistato francese quando avrebbe potuto semplicemente gestire il proprio tran tran quotidiano. Invece lo fulmina il nuovo corso della Nouvelle Cuisine, che rivoluzionerà i canoni della cucina francese e, di conseguenza, quella mondiale. La prima, la seconda e poi la terza stella Michelin nel 1985, primo italiano in terra d’Italia, (l’altoatesino Heinz Winkler lo precedette al Tantris di Monaco nel 1982). «L’Alto Adige per lui era un rifugio, e Fié in particolare – spiega Grai – dove fini di scrivere il suo libro forse più importante – La mia nuova cucina italiana-, proprio a casa mia». Il libro del 1982 segna infatti un capitolo importante nella definizione di un nuovo canone italiano della cucina moderna «dove fino a meno di un decennio prima trionfava soprattutto la cultura dell’osteria e della trattoria» ed entra in un a nuova era. «A Fié, tra una discussione l’altra, gli feci scoprire anche i bagni di fieno, di cui fu subito entusiasta». Tanto da farne un rito personale. «Era amante della arti e del buon gusto, con una cultura a spettro molto ampio e una grande sensibilità che proiettava nella ricerca della materia prima, nei piatti e nei gusti». Creatore del ristorante come esperienza totale, si dice di Gualtiero Marchesi, che con il suo “Risotto, oro e zafferano”, non cambia solo la struttura del grande classico della cucina milanese, il risotto alla milanese, eliminando parte dei grassi e persino la mantecatura con il parmigiano, ma lo trasforma in un’icona moderna con quella foglia d’oro che, superflua per il gusto, ne cattura la bellezza energetica e moltiplica la potenza estetica. Un simbolo, forse non casuale, della Milano da Bere e dello stile di vita degli anni 80. Non sterile però. «Era un uomo pieno di iniziative e di idee, che ha sempre trasmesso ai suoi collaboratori, vorrei dire discepoli con cui amava fermarsi e dire “sedetevi e parliamone”». Carlo Cracco, Davide Oldani, Ernst Knam, Andrea Berton e Daniel Canzian; ma ha aperto la strada a molti altri, Enrico Crippa e moltissimi altri. «Io ho fatto una vita con lui, onesta sincera e professionale» racconta ancora Grai ricordando i mille eventi a cui hanno partecipato insieme, compresa una delle ultime, alla scuola di formazione Alma creata da Marchesi in cui il maestro lo premiò nel 2015. «Un Grande onore per me» conclude Grai.

Pochi giorni fa l’ultima telefonata «mi ha imbrogliato, perché non mi ha detto niente della grave malattia». Un rimpianto più che un rimprovero verso un amico. Volato Via.













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