Io, trovandomi con la morte così vicina

Febbraio 1936: Amba AradamL'avanzata italiana sulla amba Aradam (una fortezza naturale di altissima importanza strategica che spiana la strada verso la capitale Addis Abeba), trova una fortissima...



Febbraio 1936: Amba Aradam

L'avanzata italiana sulla amba Aradam (una fortezza naturale di altissima importanza strategica che spiana la strada verso la capitale Addis Abeba), trova una fortissima resistenza.

12 febbraio. «Giorno duro per noi. Siamo partiti alle 6 di mattina sulla sinistra di Amba Aradan. La Divisione “3 gennaio” veniva attaccata dagli Abissini. Noi siamo andati di rinforzo. La 3 Gennaio continuava a chiedere rinforzi perché le loro perdite erano grandi».

13 febbraio: «L’artiglieria ha fatto un lavoro tremendo, e anche l’aviazione coi nostri intrepidi aviatori. Scendevano a 50 metri dal nemico per mitragliare. Le nostre divisioni hanno incendiato un paese».

14 febbraio. «Una compagnia di Alpini ha lavorato tutto il giorno a seppellire morti abissini».

Così descrive la battaglia decisiva del 15 febbraio: «Alle 6 siamo partiti col compito di passare sulla sinistra di Amba Aradam, si aveva 2 bombe a testa e 120 colpi di moschetto. Alle 8 e mezza si percorreva una piccola pianura quando una forte fucileria è partita dalla parte abissina. Dalle pallottole che fischiava non si poteva più alzare la testa. Io trovandomi con la morte così vicina non capivo più nulla».

«Sono venuti all’assalto, credevo ormai di essere travolto, venivano in piedi con un coraggio da leoni. Ma quando erano a 100 metri i primi cominciavano a cadere, quelli dietro si sono spostati dove la 10a compagnia non aveva ancora piazzato le mitraglie. Dopo 5 minuti guardai a sinistra. Ma che ho mai visto! La battaglia era ormai corpo a corpo. Il sangue scorreva in abbondanza. Gli ufficiali sparavano con le pistole e gli abissini contraccambiavano a colpi di scimitarra. Cinque minuti dopo hanno dato un altro assalto e morirono due dei nostri bersaglieri. 30 o 40 abissini hanno tentato ancora di sfondare dove si trovavano due tenenti e il capitano. Questi con le pistole ne hanno uccisi molti ma 4 o 5 si sono dati al corpo a corpo. Un tenente è stato ferito gravemente e nel medesimo tempo il capitano prendeva una pallottola nel ventre, poi una alla testa e alla fine moriva con un colpo di scimitarra alla testa da un ragazzetto di 15/16 anni».

«Il colonnello ha mandato degli altri plotoni della mia compagnia. I superstiti dei neri furono massacrati tutti, ma però anche nelle nostre file la morte aveva fatto la sua passeggiata. Noi quando non si sparava più, si domandava chi era ferito o morto. C’erano otto portantine dove giacevano otto cadaveri dei nostri compagni, e a destra c’era il cadavere del capitano. Non potete credere l’impressione che hanno fatto. Morti abissini ce n’era un numero enorme di tutte le età, tutti armati di fucile e scimitarra. Abbiamo preso posizione fra i morti e là abbiamo fatto la ridotta nella medesima posizione che il nemico occupava questa mattina».

16 febbraio: «Abbiamo fatto da becchini tutta la mattina a seppellire cadaveri. Si faceva delle buche e se ne gettavano giù 25 o 30 ognuna. Dopo pranzo abbiamo cambiato posizione, abbiamo trovato ancora un centinaio di morti, si vede che questi erano feriti e si sono tirati fino qui».

17 febbraio: «Non sono capace di scordarmi i miei compagni morti, più ci penso e più sono afflitto».

27 febbraio: «Siamo entrati nella valle che porta al Passo Falagà. La nostra aviazione ha lasciato cadere di quelle bombe a gas che pesano un quintale circa e se ne vedevano ancora a terra che erano più alte di un uomo».

Marzo 1936: iprite e piccone

2 marzo. «Oggi sono venuti 60 fra uomini e donne a farsi medicare: queste persone sono state prese tutte dall'iprite causa le bombe che abbiamo fatto cadere dal primo al 18 febbraio, e queste bombe erano di gas perciò sono stati presi tutti. Chi agli occhi, chi agli intestini, chi alla pelle. Sono ridotti in brutto stato».

6 marzo. «In una piccola casa, su un po’ di paglia c’era un nero già morto e in putrefazione. Si vedeva che era stato ucciso dai gas gettati dai nostri apparecchi».

17-18-19 marzo. Nelle pause tra i combattimenti vengono mandati a fare strade con pale e piccone. Si verificano molti incidenti. «Un sasso ha colpito un mio compagno alla testa staccandogliela nettamente. E pensare che il giorno prima aveva scritto alla moglie che può star sicura che se non è morto il 15 febbraio sull’Amba Aradam non muore più...».

26 marzo: «Sono venuti 90 neri tutti colpiti dall’iprite per farsi medicare dal nostro dottore»

31 marzo: «Gli abissini hanno attaccato lasciando sul terreno tanti dei nostri compagni. Oggi (gli abissini) hanno combattuto proprio da leoni. Gli apparecchi però fanno dei lavori straordinari, vengono perfino a 50 metri per mitragliarli».

Aprile 1936. Pile di morti

Riprende l’avanzata verso Addis Abeba dopo che aviazione e mortai hanno martellato per giorni le divisioni etiopiche.

2 aprile. «Abbiamo attraversato il boschetto dove l’artiglieria ha sparato per due giorni. C’erano pile di morti alte un metro, mai visto così tanti morti, c’erano anche un’infinità di feriti che si lamentavano tutta la notte con grida strazianti».

3 aprile. «Non abbiamo fatto altro che marciare sopra i morti, poi finalmente siamo usciti nella pianura. Prima di avanzare ho fatto un voto a Sant’Antonio perché ci salvi da un macello sicuro».

12 aprile. «Oggi è il Santo giorno di Pasqua. Anche oggi il rancio non arriva: questo è il ringraziamento delle nostre fatiche e privazioni. Ah, se sapesse il nostro amato duce che il povero militare in Africa viene trattato così male, mentre i nostri ufficiali per loro il mangiare oggi ce l’hanno e hanno anche il vino e per noi niente».

Maggio 1936: Impero.

5 maggio, mentre Mussolini si affaccia a Palazzo Venezia per annunciare la conquista di Addis Abeba da parte di Graziani e la “fondazione” dell’Impero, Trentini annota: «Dopo 7 mesi di sforzi sovra umani e 7 mesi di guerra, oggi le nostre truppe sono entrate nella capitale etiopica Addis Abeba. La sera si vede fuochi d’artificio da tutte le parti per far vedere che tutta l’Etiopia è Italiana e così speriamo che anche noi fra poco torniamo alle nostre case». Vuole solo rimpatriare, mettere nell’archivio dei ricordi una guerra che fatica a comprendere. Ma l’inferno è sempre lì, davanti ai suoi occhi. 15 maggio: «In due compagnie di 400 uomini ce ne sono 115 all’ospedale col tifo. Queste malattie vengono fuori causa l’aria infetta dalla puzza dei morti, qua ce n’è dappertutto sotterrati».

Luglio-ottobre 1936

Addis Abeba. Repressione

Il 9 luglio entra con la sua Divisione ad Addis Abeba e ne resta affascinato. «Nella capitale - scrive - è come essere in una nostra città, c’è di tutto. C’è dei palazzi, dei caffè, delle trattorie, degli hotel, le strade principali tutte asfaltate. C’è vino, liquori. Insomma, trovandosi in Africa, la capitale è una grande città». Nonostante la proclamazione dell’Impero, la guerra non è affatto finita. Addis Abeba viene continuamente attaccata dai partigiani etiopi, gli Arbegnuocc, fieri e indomabili. La repressione è durissima. Fucilazioni di massa, uso indiscriminato dei gas “proibiti” che devastano foreste e villaggi uccidendo migliaia di persone. Lui annota tutto.

19 luglio. «Al campo d’aviazione c’è stato un attacco con una banda di 500 armati».

29 luglio. «Loro sparano sempre e i nostri apparecchi non fanno altro che bombardare».

30 luglio. «Alle 4 sono stati catturati 500 prigionieri, li hanno fucilati tutti subito».

31 luglio. «Oggi sono stati catturati un po’ di prigionieri, fra questi c’era un vescovo copto che è stato subito passato per le armi!». Si tratta del vescovo di Dessiè, Petros, uno dei capi della resistenza. Usa il punto esclamativo Adolfo. È profondamente credente: l’esecuzione lo sconvolge.

1 agosto. «Oggi presi 3-400 prigionieri che sono stati anche questi passati per le armi al campo d’aviazione».

8 settembre. «Sono stato di rastrellamento con una squadra di Ascari e 5 carabinieri. Abbiamo trovato otto fucili e 5 scimitarre: li abbiamo arrestati tutti e portati in città».

18 ottobre. «C'è stato un combattimento proprio forte a 30 chilometri da qua, morti dei nostri dicono che c’è n’è molti, ma di loro hanno fatto un macello».

19 ottobre. «La battaglia continua, gli apparecchi fanno strage. Dicono che qui intorno ci sono ancora 30 mila neri armati».

21 ottobre. «Gli apparecchi oggi gettano giù certe pillole che fanno venire la pelle d’oca, ma però (gli abissini) sono duri e le perdite sono da ambo le parti».

24 ottobre. «Dicono che c’è un’enormità di morti».

In una situazione surreale, tra un massacro e l’altro, al campo sportivo si tengono gare di tiro alla fune, tornei di pallavolo e una partita di calcio tra Bersaglieri e Fanteria. «Abbiamo vinto noi 2 a 1», riferisce Adolfo alla ricerca di una parvenza di normalità. Ma è una bolla già evaporata al tramonto. «Ieri sera gli abissini hanno ucciso un carabiniere a colpi di scimitarra».

Novembre ’36. Bombe e sfilate

10 novembre. «È partita una colonna di camion senza scorta, gli apparecchi hanno bombardato tutti i tucul che si trovavano vicino alla strada perché non venga attaccata».

13 novembre. «Sono venuti qua 4 o 5 capi a protestare perché gli apparecchi gli hanno bruciato i tucul, ma questo è niente, si accorgeranno di come devono filare sotto Graziani»

Arriva la comunicazione che i Granatieri daranno il cambio ai Bersaglieri entro Natale. Trentini, che vede finalmente avvicinarsi il rientro in Italia, vive con insofferenza le parate trionfali che si susseguono ad Addis Abeba.

Il 25 novembre scrive: «Oggi prove di ginnastica per la sfilata davanti a Graziani del 30 novembre. Faremo l’ultima sfilata e l’ultimo saggio ginnico (prima della partenza, ndr). Si fa l’arco A Noi, la piramide… Dopo 40 mesi da militare e a 26 anni devo fare ancora queste cretinerie...».

Il 30 novembre annota amaro: «Siamo andati al campo sportivo per la sfilata davanti al vicerè Graziani. Credevamo che lui facesse un applauso alla vecchia divisione e la ringraziasse per tutto quello che ha fatto, invece niente, non ha detto una parola. Questo è il ringraziamento dopo 18 mesi d’Africa».

Dicembre 1936. Massaua

Il 9 dicembre arrivano i primi scaglioni dei Granatieri. È finita. Il 28, dopo due settimane di camion, Trentini e i suoi compagni finalmente arrivano al Porto di Massaua. La sera s’imbarcano sul Tuscania. Destinazione Italia.

Gennaio 1937. A casa

Il 7 gennaio Adolfo Trentini sbarca a Napoli «fra gli applausi e le grida delle popolazione». Il giorno dopo è al comando di divisione a Lodi. Il 10 gennaio riceve il congedo, compra un abito, una valigia, un paio di calzini e uno di mutande. Si toglie la divisa, e sale sul treno per Verona. L’11 mattina è a Trento, a mezzogiorno è a Cles. Abbraccia la mamma e i fratelli, prende il quaderno e scrive l’ultima nota. Quattro parole: «Ultimo giorno di naia».

Fulvio e Mattia Vicentini hanno pubblicato il diario di Adolfo a proprie spese. Per averne una copia scrivere a vicentini_fulvio@hotmail.com













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