memoria

Langer: "Noi e il cuore nero dell’Alto Adige"

Il farmacista, fratello di Alex, racconta la persecuzione della famiglia di origine ebraica


di Francesca Gonzato


BOLZANO. Il cuore nero della storia di questa provincia. Ebrei perseguitati, traditi, catturati e deportati con la complicità di fascisti e nazisti locali. Cancellata una parte dell’identità di Merano, piccola capitale dell’ebraismo europeo, grazie alle centinaia di famiglie che vi soggiornavano nella bella stagione e vi si curavano. Una storia poco elaborata. «Per noi sudtirolesi questa scoperta è avvenuta ancora più tardi»: Peter Langer racconta la storia della sua famiglia, la persecuzione subita dal padre Artur, la fine della guerra, il ritorno a casa a Vipiteno e la costruzione della nuova vita, «come se nulla fosse successo, ma naturalmente non era così. E solo più tardi abbiamo capito il senso di certi discorsi, o perché non si entrasse in alcuni locali». La presenza rara di Peter Langer ha reso speciale venerdì sera la presentazione del libro «Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige», di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, appena pubblicato nella edizione italiana (a cura del Museo ebraico di Merano, Raetia edizioni). Un libro importante. «Lo dovrebbero leggere tutti. Per capire e sapere», dice Langer.

Il circolo Pd di via Resia ha scelto di celebrare così il Giorno della memoria, a pochi metri dal muro del Lager. Langer, che ha gestito a lungo la farmacia di famiglia a Vipiteno, è il fratello di Alexander e del medico Martin (professore alla Facoltà di Medicina dell’università di Milano).

Alexander Langer ricordava le origini ebraiche del padre Artur. Grazie al racconto di Peter Langer, la storia dettagliata del ramo familiare paterno trasferito da Vienna a Bolzano, al seguito del nonno Alexander,è diventata una tessera del mosaico che compone il libro di Sabine Mayr (storica) e di Innerhofer (direttore del Museo ebraico di Merano).

Non c’è solo la memoria da tenere viva. L’antisemitismo cambia pelle. Innerhofer parla di sé: «Per due volte, a Merano e Bolzano, sono stato insultato per strada, perché ero riconoscibile come ebreo, con la mia kippah sulla testa. Sono stati dei nordafricani. Non si può dire che tutti i musulmani siano antisemiti, ma è un problema di cui si parla nelle comunità ebraiche europee».

Peter Langer parla con pacatezza, ma le parole sono affilate, quando toccano i silenzi e le versioni di comodo del dopo guerra: «Qui si sono intrecciati due regimi, quello fascista e quello nazista, che hanno collaborato, fino a quando i più forti hanno avuto la meglio. Gli italiani hanno sfruttato al massimo il fatto che c’erano stati dei cattivi più cattivi... I sudtirolesi se ne sono stati zitti e per anni hanno puntato il dito contro il regime fascista, che faceva comodo, perché era facilmente individuabile come l’oppressore etnico, che aveva tolto ogni diritto ai sudtirolesi. In tutto questo, si parlava poco delle vittime, ebrei, rom, perseguitati politici....». Blindati nel ruolo delle vittime. Sabine Mayr parla di «rimozione ostinata».

Artur Langer, ricorda Peter, nel 1938 era primario di chirurgia all’ospedale di Vipiteno. Il fratello Erwin era avvocato con studio a Merano, dopo la pratica con Gaetano Boscarolli. Nel dopoguerra rappresenterà molte famiglie ebree nelle cause per ottenere il risarcimento per i beni perduti. Nel 1938, con l’emanazione delle leggi razziali, «mio padre perse la cittadinanza italiana, fu apolide, e venne espulso dall’Ordine dei medici. Era diventato nessuno. E lo stesso accadde allo zio Erwin». Artur non aveva ancora sposato Elisabeth Kofler, la farmacista, di cui si era innamorato. «Se n’era guardato bene». Aveva intuito forse la tempesta in arrivo. Artur era di famiglia ebraica, ma non coltivava una vita religiosa. Nessuna differenza. «È stata una persecuzione razziale», scandisce Peter. Dopo il 1938 Artur, Erwin, la moglie di questi Anna e la loro figlia Maria fuggono. Due anni di relativa serenità in Val di Sogno a Malcesine, dove tutti sanno ma li coprono. «Mio padre curava i pescatori, mio zio dava consigli legali sui litigi tra vicini». Nel 1940 il clima diventa più pesante. Ancora una tappa in Toscana, con il rischio di finire nelle mani dei nazisti, e finalmente la fuga riuscita in Svizzera dal 1944 alla fine della guerra. La madre Elisabeth, si legge nel libro, fu l’unica a salutare l’arrivo degli americani a Vipiteno con una bandiera della Croce rossa. Artur tornò a Vipiteno, riprese il suo posto all’ospedale, si sposò e nacquero i tre figli. «È morto nel 1974 senza avere raccontato praticamente nulla ai figli. Abbiamo conosciuto la sua storia grazie a mia madre e ad altri parenti. Non riusciva a parlarne, come tanti sopravvissuti», dice Langer, «Anche per questo la persecuzione è stata compresa poco per volta». E la madre? «In quei sette anni si è barcamenata e anche dopo...Non si cancella il passato con un colpo di spugna. Non era ancora sposata, è stata protetta dal ruolo sociale di farmacista, ma tutti sapevano con chi era fidanzata e qualche angheria l’ha subita». Langer ricorda: «C’è molto da scavare ancora sul ruolo della Chiesa durante le Opzioni». La rimozione ha tante facce, ricorda Sabine Mayr: «Nel libro abbiamo pubblicato i nomi delle persone che hanno tratto beneficio dalla persecuzione degli ebrei. Case e negozi acquistati per pochissimo. Abbiamo le carte, è tutto documentato, ma alcuni dei discendenti hanno reagito molto male». Langer: «Non siamo colpevoli per le colpe dei padri. Bisogna avere il coraggio di scavare».

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