L'INTERVISTA duccio canestrini antropologo 

«Natale nel recinto di casa, festa di un’umanità divisa» 

Le festività ai tempi del Covid. «Alcuni hanno scoperto che esiste una socialità coatta. E hanno fatto pulizia. Ma attenzione: ci sono forti fratture anagrafiche, per i giovani cambia»


Paolo Campostrini


Bolzano. Che faremo dopo il Covid? Ma soprattutto: come saremo? Perché la pandemia sono mesi che diffonde altri malesseri, oltre al terribile male che ci ha già cambiato la vita. E ad ognuno il suo, di malessere. Dice Duccio Canestrini: «C'è chi riscopre i piaceri della solitudine ma rischia di scivolare nella misantropia. Chi invece chiede relazioni fisiche andando in ansia per la loro assenza. E boccheggia. Quelli che ondeggiando tra le negazione del male e il catastrofismo. Per darsi sicurezze». E poi sono scomparsi dall'orizzonte quotidiano paure che, prima, ci sovrastavano: gli immigrati, ad esempio. Sostituite da quelle per il vicino che ci sfiora sul marciapiede. Sfibrati e in penombra anche gli afflati ecologici soppiantati dal primato della salute. Ma molto individuale e magari non quella del pianeta viste le tonnellate di mascherine che si ritrovano in mare. Insomma, il Covid sta operando su di noi mutamenti strutturali e dunque antropologici? «Forse no. Non ancora. Ma stiamo imparando molte lezioni. Che potrebbero cambiarci. Per dire: la cura di noi stessi. Del nostro corpo. Abbiamo capito che uno stile di vita regala risposte immunitarie considerevoli. Natura, cibo sano, attività fisica. Ma dimentichiamoci il comunismo della salute, come ho provato a chiamarlo. A volte il senso di responsabilità verso gli altri è così contagioso e ossessivo da diventare retorico. In realtà ci siamo scoperti anche molto, molto egocentrici". E pure il Natale, le feste, iniziamo a vederle sotto nuove luci. O ombre. Cambia anche il nostro rapporto con gli eventi, dunque. E l'immaginario. Antropologo, scrittore e ricercatore, docente di antropologia del turismo all'università, Canestrini indaga da sempre il rapporto tra l'uomo e il suo contesto, anche sul piano fisiologico e morfologico. Finanche culturale.

Come arriviamo a questo primo appuntamento con le feste e in Natale in tempo di Covid?

Dentro una grande incertezza. Di fronte alla quale ognuno risponde secondo la propria indole. Chi ha bisogno di certezze, molto male. E per sfuggire al malessere o si aggrappa ai negazionisti o ai catastrofisti. Magari distruggendo antiche amicizie per una mascherina indossata male. Queste feste ci sorprendono dentro un mondo di umanità divisa.

Divisi perché soli?

No, anche concretamente. La pandemia ha sancito la nascita di due mondi separati: chi ha il lavoro fisso e garantito e chi no. Come le partite Iva. Sei dentro o fuori le sicurezze. E questo è lacerante socialmente.

Ma resta la famiglia, no?

Certo che resta. Ma il lavoro a casa ha prodotto nuove promiscuità.

A cui non eravamo pronti?

Sono state un inedito. Ci siamo trovati a sovrapporre ritmi e presenze. Invasioni di campo con la tv, la cucina, il computer. E questa vicinanza forzata ha prodotto litigi ma anche terribili violenze domestiche. Che infatti sono aumentate di molto da marzo.

Col risultato?

Che abbiamo anche scoperto la tanta retorica familistica che ha spesso avvolto questi contesti. E molti ne sono stati toccati nel profondo.

Questa retorica, come la definisce, ha colpito anche i rapporti con l'esterno, con gli altri?

Certo. Alcuni hanno scoperto su se stessi che esiste una sorta di socialità coatta. A cui si può rinunciare. Formalità relazionali, incontri, inviti. Si è fatta pulizia. Ma attenzione, su questo piano, ci sono forti fratture anagrafiche.

Cosa intende?

Per i giovani il rapporto con l'esterno cambia. Anche perché è un modo per sganciarsi dall'altra retorica, quella famigliare.

Lei ha molto indagato gli ambiti antropologici legati al turismo. Torneremo a volare?

Il turismo è un settore molto resiliente. Torneremo. Ma ora è un tasto dolente. Siamo passati da decenni di apertura verso l'altro alla paura dell'altro. Siamo dentro una sorta di “turismo recintato”. È un cambiamento duro. Dal quale spero usciremo con un nuovo modo di intendere anche il viaggio: più rispetto, più attenzione alla natura. Tuttavia penso che tutto questo ci resterà dentro".

Ma il Covid potrà lasciare anche una sorta di eredità buona, nonostante il tanto male che ha diffuso?

Beh, intanto sento che non temiamo più l'immigrazione. Almeno non è più "il" problema. Abbiamo alzato lo sguardo. Leggo che la criminalità si è ridotta, che a volte la natura ha ripreso le sue posizioni. E anche la riscoperta dell'aria aperta, mentre mangiamo o come luogo di fuga dal virus, ci ha indotto alla pazienza, all'ascolto e alla contemplazione. Che a sua volta ci induce alla relativizzazione dei problemi. E questo è bene".

Può significare anche ascoltare di più se stessi?

E pure il proprio corpo. Avremo più cura di lui perchè abbiamo capito che , se lo rispettiamo, ci può salvare.

Ne usciremo migliori, come si diceva a marzo?

Non so. Diversi, certo. Ma temo che faremo un bel bagno di egocentrismo in questi mesi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA.













Altre notizie

Attualità