la storia

«Non voglio arrendermi alla malattia e sfido le vette dell’Himalaya» 

Silvano Rosa, 72 anni, bolzanino accompagnatore Cai: «Sono partito con il benestare della mia oncologa. La montagna? mi dà la forza di lottare». Meno di un mese fa era al campo base dell'Everest, a quota 5300 metri


Maddalena Ansaloni


BOLZANO. «Sto già pensando al prossimo viaggio: Patagonia». Si illuminano gli occhi a Silvano Rosa, mentre racconta il mondo che ha visto. Bolzanino (72 anni), accompagnatore Cai, era il più abbronzato al pranzo di famiglia di Natale. «Merito del sole dell’Himalaya», sorride. Meno di un mese fa si trovava al campo base dell’Everest (5.364 metri), l’obiettivo raggiunto dopo tre settimane di trekking tra le cime nepalesi. Salite, discese, ponti tibetani, e sei creste da 5 mila metri affrontate e vinte. «A vedere dal basso l’Everest mi è venuta una grande voglia di salire. Gli otto mila sono un sogno», racconta, «Ma non pecco di presunzione, è importante ascoltare il corpo e capire quando fermarsi». Dieci anni fa gli è stato diagnosticato un tumore e da lì è cominciato il percorso di convivenza con la malattia. «Molti pensano che in questi casi la vita finisca ma io non ho voluto arrendermi. Avevo una grande passione: la montagna. Mi ha dato la forza di darmi degli obiettivi, continuare a lottare».

Il viaggio

«Così, con il benestare della mia oncologa, sono partito», racconta Rosa. Nel 2018 alla volta dell’Alpamayo, una delle più famose montagne della Cordillera Blanca, nelle Ande peruviane. Poi è stata la volta dell’Aconcagua in Argentina e, nel 2019, del mitico Kilimangiaro in Tanzania.

Quest’anno ha scelto l’Oriente, verso la più maestosa delle cime: l’Everest. «Con non poche difficoltà», prosegue, «Il viaggio, tra voli e autobus su strade sgangherate, è durato più di quindici ore. Poi è cominciata la vera avventura, a piedi, con più di 60 ore di cammino effettivo, 150 chilometri di percorsi e 9.666 metri di dislivello».

Ricorda tutto Rosa. Ha studiato attentamente il percorso, non lasciando niente al caso.

«Mai sottovalutare», consiglia, «Non avrei mai pensato di faticare così tanto, vista la mia preparazione ed esperienza. Ma fa parte del gioco: è giusto vincere una sfida con il sudore. È in questi casi che si scopre di avere più forza di quella che si crede di avere, soprattutto nella malattia, dove c’è anche un aspetto fortemente psicologico».

Durante tutto il trekking Rosa non è mai stato solo. «Avevo compagni di età diverse», racconta, «Qualcuno più preparato, qualcuno meno. Mi hanno sempre sostenuto e aspettato nei momenti in cui il fiato mancava e avevo bisogno di rallentare».

E il bagaglio? «Avevo lo sherpa - spiega -. I portatori sono giovani nepalesi con una forza assurda. Si vede che la montagna è nel loro Dna, nascendo lì hai un fisico completamente diverso. Diciamo che è stato un comfort non da poco che mi ha permesso di risparmiare una grande fatica».

L’Everest

Il momento più bello? «Arrivare al campo base dell’Everest», prosegue Rosa, «Un’emozione indescrivibile. Mi sono sentito una nullità di fronte alla vetta innevata, una sensazione indimenticabile».

Tornato a Bolzano da pochissimo, Rosa non può non aspettare con ansia la prossima occasione in cui potrà rivivere quei paesaggi e quei silenzi. «Sto già organizzando un viaggio per il prossimo anno in Patagonia», confida, e consiglia a tutti di non abbandonare mai le proprie passioni, «È possibile convivere con la malattia senza esserne schiavi. Spero che la mia storia ne sia la dimostrazione».

 













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