Strage degli operai «Ora tocca a noi ricordare. In nome di nostro nonno» 

Davanti al muro della Lancia. La promessa dei nipoti di Andrea Cavattoni sopravvissuto all’eccidio della Zona industriale: «Chiediamo una stele con i nomi dei morti e dei feriti di quella tragica giornata»


Luca Fregona


Bolzano. Andrea Cavattoni non ne parlava volentieri. Ricordare gli faceva male. Ma lui, il partigiano “Dighe”, premiato dal presidente Pertini, sopravvissuto alla strage degli operai de 3 maggio 1945 in Zona industriale, sapeva che l’oblio era l’alleato numero uno del fascismo e del razzismo. E voleva che i suoi figli, e i figli dei suoi figli, non avessero mai a che fare nella loro vita con quel mostro immondo. Così, aveva raccontato tutta la storia ai figli Roberto, Marco e Gianpaolo. Perché non andasse perduta, e testimoniassero al suo posto quando lui non ci sarebbe stato più. E poi l’ha raccontata ad una schiera di nipoti nati e nate tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso: Irene e Andrea, figli di Gianpaolo; David e Sarah, figli di Marco; Cristina e Alessandra, figlie di Roberto. Che ieri si sono ritrovati davanti al muro della Lancia per rinnovare la promessa. «Perché - dicono - adesso tocca noi : è arrivato il nostro turno. Glielo dobbiamo, al nonno».

Andrea Cavattoni è morto nel 1991. Poche settimane fa se ne è andato anche Ottorino Bovo, l’ultimo testimone diretto di quella maledetta giornata che Bolzano sembra aver dimenticato. Il 3 maggio 1945, Ottorino Bovo si era beccato due pallottole mentre cercava di soccorrere gli operai rastrellati dalle fabbriche della Zona, messi al muro dai tedeschi per rappresaglia, e falciati da due scariche di mitragliatrice sparate da un blindato. Andrea Cavattoni era uno di loro.

Il racconto della strage

Quel giorno, Andrea viene catturato alla Sida, la fabbrica all’incrocio tra via Pacinotti e via Righi, dove faceva il custode. Viene preso con altri due operai: Walter Saudo e Antonio Peretto. I tedeschi prendono altri lavoratori alla Saffa, alla Magnesio, alla Ceda. Una ventina di uomini in tutto. La colonna dei prigionieri svolta a destra su via Volta. Vengono fatti fermare davanti al muro della Lancia poco prima dell’entrata dello stabilimento, ammassati su due file. A dare gli ordini è un tenente delle SS. Un biondino sui trent’anni, racconterà più volte Andrea Cavattoni ai figli. Dal sottopasso di Oltrisarco sbuca un autoblindo di paracadutisti tedeschi. Hanno la mitragliatrice sulla torretta. Il tenente dà loro l’ordine di sparare sugli operai al muro. L’autoblindo si mette di traverso. La torretta si gira verso i martiri. Andrea Cavattoni sente urlare solo due parole: “Partisanen, Partisanen”.

La mitragliatrice spara una sventagliata all’altezza della pancia. Cadono come birilli i venti operai. In avanti, di lato, di schiena. Il più giovane non ha nemmeno 18 anni. «Una strage - continuava nel racconto-. Quelli della prima fila tutti uccisi all’istante. Quelli della seconda, a terra feriti, molti gravemente».

Andrea Cavattoni cade sulla schiena, colpito alla coscia. Gli piomba addosso il corpo senza vita di uno dei direttori della Magnesio. «Pensavo a mia moglie Paola e ai miei figli, a come avrebbero fatto senza di me», dirà molti anni dopo ai nipoti. Poi tutto diventa nero. Sente solo il raglio dei soldati tedeschi. Parte una seconda raffica. Cavattoni viene colpito ancora, non capisce nemmeno lui dove, ma è ancora vivo. Il corpo del dirigente della Magnesio gli ha fatto da scudo.

Non è finita. I soldati tedeschi si avvicinano. Tirano fuori la Luger per il colpo di grazia ai feriti. Ma su quell’inferno scende un angelo dal cielo. È sempre nonno Andrea a raccontarlo: «Dalla Magnesio esce di corsa un uomo. Parla tedesco. Invoca la Convenzione di Ginevra. Dice che è suo dovere assistere i feriti. I soldati non replicano, sono quasi in soggezione. L’uomo fa arrivare un camion dalla Magnesio». È un Lancia 3Ro con il cassone e un telo sul fondo. Sulle fiancate il simbolo della Croce Rossa. Cavattoni e Saudo vengono caricati a braccia da Ottorino Bovo, sanguinante ma con la forza di un leone, insieme ai morti ed altri feriti sul camioncino. «Walter Saudo si appoggia con la schiena al cassone del camion. Mi rendo conto che ad ogni scossone si piega col busto in avanti. Ma non all’altezza della cintura. A metà torace. Cerco di tenerlo su, di fermarlo col braccio. Gli dico: “Walter tieni duro, arriviamo in ospedale e ti curano...”». Ma lui continua a piegarsi in quel modo. «Guardo bene. Tra il sangue e lo shock non mi ero reso conto, ma i proiettili lo avevano “segato” a metà sotto il petto. Un foro ogni dieci centimetri. È morto poco dopo». Walter Saudo muore poco dopo l’arrivo all’ospedale di via Fago.

Il partigiano «Dighe» è stato colpito al piede e alla coscia: dal malleolo in giù la gamba è nera, il sangue non circola. La notte fra il 3 e il 4 maggio chiama l’infermiera. Sta male. Il dolore è insopportabile. «Mi ha trovato in una pozza di sangue. Avevo la schiena sfondata dai proiettili. Né io né i dottori ce ne eravamo accorti».

Ma “Dighe” è di ferro e non muore.

Il bilancio è tragico: undici morti e 18 feriti. A questo elenco va aggiunta un’altra vittima innocente: Carolina Zenoni, una ragazza di 18 anni che ha visto uccidere con un colpo alla testa nel piazzale della Lancia Irfo Borin, un operaio di 19 anni. Non si riprenderà mai più, trascorrerà tutta la vita tra case di Cura e manicomi. È morta nel 2004.

Il passaggio di testimone

La memoria di quella giornata, e di tutte queste vite perdute, sarebbe andata inevitabilmente persa, se Marco Cavattoni - con la caparbietà che solo un figlio devoto al padre può avere -, non si fosse messo in testa di ricostruire tutto nei minimi dettagli, a partire dall’elenco preciso dei nomi di morti e feriti, rimasto per quasi 70 anni un rebus anche per gli storici altoatesini. Un lavoro certosino con un obiettivo preciso, concreto: l'apposizione di una stele con i nomi di tutti, morti e feriti.

Marco oggi porta quei nomi scritti su un cartello appeso al collo, insieme al fazzoletto tricolore del partigiano “Dighe”.

E, c’è da giurarci, non mollerà la presa finché avrà fiato nei polmoni. E la stessa cosa faranno i suo figli David e Sarah, e i suoi nipoti Andrea, Irene, Cristina e Alessandra.

Lo hanno ripetuto ieri davanti al muro dove il loro nonno Andrea è sopravvissuto con una riga di pallottole infilate nella gamba e nella schiena. «Abbiamo fatto in tempo a conoscerlo - raccontano Irene, Andrea e Sarah -. Non ne parlava volentieri, perché quello era un capitolo chiuso della sua vita, che gli faceva troppo male. La gente dopo la guerra voleva dimenticare. Ma poi, quando vedevamo le medaglie, il tricolore, e gli chiedevamo cos’erano, si apriva. In poche frasi ci raccontava quello che era successo quel giorno. Crescendo, abbiamo messo a fuoco quello che era accaduto, e ci ha sempre molto stupito il fatto che Bolzano non abbia mai onorato in maniera degna le vittime del 3 maggio».

Dicono Andrea e Irene, che l’anno scorso hanno perso il papà Gianpaolo: «Oggi che i testimoni non ci sono più, e che anche i loro figli stanno invecchiando, tocca a noi ricordare. Lo dobbiamo a nostro a nonno e a tutti quei ragazzi. Il mostro del razzismo e dell’intolleranza, sta risollevando la testa».













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