Tronchi da smaltire, la grande muraglia 

Per liberare i boschi serviranno 4 anni. Diverranno produttivi fra 50. Il paesaggio ritornerà lo stesso fra un secolo e mezzo


di Davide Pasquali


BOLZANO. «Dopo la tempesta di vento di fine ottobre i boschi - specie a Carezza, dove la foresta di abete rosso aveva raggiunto il suo climax - ritorneranno gli stessi, quelli che eravamo abituati ad ammirare, fra 150-200 anni. Era questa l’età di quelle piante». Immaginarselo da profani è una cosa; sentirselo dire dal massimo esperto altoatesino di foreste è un’altra. Fa tutto un altro effetto. C’è veramente da pensarci: almeno un secolo e mezzo. Ma per il direttore della ripartizione foreste della Provincia, Mario Broll, la dimensione paesaggistica è solo una delle variabili di un fenomeno economico e ecologico assai più complesso di quanto si potrebbe ritenere.

Fanno 1.5 milioni. Intanto, non si tratta solo di tanti alberi caduti giù. Sono un’enormità, e ora il problema principale è sgomberarli. Le stime dei primi giorni parlavano di 1,2 milioni di metri cubi. Affinati i calcoli ora siamo arrivati a 1,5 milioni. Il peggio a Carezza e dintorni: 340 mila metri cubi. Ma è andata malissimo anche attorno a Lavazè: 270 mila. In tutto i Comuni altoatesini colpiti sono stati 22. Ma la situazione è meno drammatica se si considerano i dati macro: il 50% dell’Alto Adige è coperto da boschi; la tempesta ne ha abbattuti 2500 ettari, un’enormità, ma rappresentano solo l’1,7% del totale. Brutto insomma, ma non un dramma. Una bella gatta da pelare, però, su molti fronti.

Logistica. La rete stradale pubblica ormai è stata quasi completamente sgomberata. Rimangono i boschi. Potenzialmente l’Alto Adige sarebbe capace di stoccare 600 mila metri cubi nei magazzini delle proprie segherie per poterli poi lavorare. Ma c’è un ma: questa è teoria perché, come d’uso, prima dell’inverno tutti hanno già stipulato i contratti fino alla metà dell’anno dopo. Ci sono altri impegni già assunti, e scadenze da rispettare. Altri 500-700 mila metri cubi potrebbero essere destinati alle 72 centrali altoatesine di teleriscaldamento a biomassa.

Ma il resto? Si potrebbe esportare - Italia e altri Stati - ma l’intero mercato internazionale del legno è terribilmente sotto pressione, perché la tempesta ha colpito in tante zone. Ne basterebbe una: a Belluno sono andati giù 8 milioni di metri cubi. E anche i bellunesi devono pur piazzare il loro legname. Altri 2 milioni di metri cubi sono stati abbattuti in Trentino, altrettanti in Friuli. In Austria la tempesta ne ha fatti fuori 1,75 milioni di metri cubi. Si temono cali di prezzo per tutte le tipologie di legname: costruzioni, produzione di carta, pellet, biomassa per centrali. Quattro generazioni. Mentre il settore forestale pubblico possiede uomini e mezzi per intervenire nei boschi rapidamente, i privati molto meno. Si devono consorziare per incaricare grandi ditte magari estere, tipo le corazzate forestali austriache. E comunque rischiano di portare a casa prezzi bassissimi. Tanto che più di qualcuno già minaccia di lasciare tutto nei boschi. E anche una volta sgomberato, c’è da considerare che si dovranno attendere 3 o 4 generazioni perché il bosco ridiventi economicamente produttivo e redditizio. Una batosta per tanti.

Vite da tutelare. Di norma tutte le componenti pubbliche - ossia provinciali - del settore legno e foreste lavorano nell’ombra, accumulando competenza e professionalità. Solo nelle ultime settimane son salite alla ribalta: «Siamo a disposizione di chiunque abbia bisogno di consulenze e aiuti», chiarisce il capo ripartizione foreste Mario Broll. Che tiene a lanciare un appello: «La vita umana è il bene supremo, non vorrei che la fretta di sgomberare i boschi portasse a delle vittime. Anche una sola morte sarebbe di troppo». Perché nei boschi si sta correndo, tanto. Forse anche un pochino troppo.

Protezione diretta. Broll illustra come si procederà prossimamente. «La situazione è eterogenea». Si è deciso di suddividere le aree interessate dagli schianti in tre macrofamiglie. I primi sono i boschi di protezione diretta da frane, caduta massi, valanghe. Proteggono direttamente le case, le strade, le infrastrutture. Insomma, tutelano la sicurezza. Si sta valutando caso per caso, intanto se rimuovere subito. Gli alberi abbattuti in qualche modo servono, se li si toglie ciao: si apre la strada alle valanghe. Dove occorre si sta già iniziando ad erigere reti paramassi e barriere paravalanghe. In seguito si penserà a rimboschire, in modo che nel giro di 20 o 30 anni si riesca a sopperire alla funzione regimante e antierosiva. Per dire: «Durante le forti piogge prima della tempesta di vento, il bosco è riuscito ad assorbire un terzo delle precipitazioni, che altrimenti sarebbero finite in fondovalle».

Parassiti. Sgomberare questi come gli altri boschi è importante, anche perché si profila un problema fitosanitario: infestazioni di scolitidi. Questi parassiti - non adesso ma con la bella stagione sì - cominceranno ad attaccare prima le piante atterrate, poi quelle indebolite e più esposte al sole. Se pioverà poco, aumenteranno i fattori di stress. Poi passeranno alle piante sane, in piedi. Si insinueranno fra corteccia e legno, interrompendo i vasi linfatici di collegamento fra radici e chioma. «Adesso fa freddo ed è tutto fermo», ma per correre ai ripari assieme all’università di Padova si stanno già studiando le contromisure: metodi di lotta basati sui ferormoni.

Madre natura. La ripartizione Foreste, come fa da decenni, punterà ovunque sulla rinnovazione naturale dei boschi. «I vivai di solito servono solo a produrre piante per i boschi di protezione in alta quota». Il secondo tipo di boschi sono quelli eteroprotettivi, estesi su ampie superfici, posti in zone dove eventuali frane o valanghe anche di notevole entità non pregiudicano case o infrastrutture. «Ma anche qui è di primaria importanza tutelare l’assetto idrogeologico». In questo secondo tipo di bosco danneggiato si aiuterà la natura con rimboschimenti, mescolando le specie e introducendo anche larici e cembri, specie più pioniere dell’abete rosso. Alle quote più basse si pianteranno abeti bianchi. I vivai stanno già girando ad alto regime, una distesa di piantine di due anni. In estate si sono raccolte molte sementi locali, perché si preferisce piantare specie autoctone. «Per il 2019-2020 siamo già a posto».

Anni. Il lavoro di risistemazione dei boschi durerà 3-4 anni. Per quanto riguarda la terza tipologia di bosco, che rappresenta quasi la metà del totale, si valuterà caso per caso se lasciar fare alla natura o meno, magari aiutandola in parte, piantando latifoglie e abeti bianchi in basso, larici e cembri in alto. Ma anche qui si punterà sulla rinnovazione naturale. «Per raggiungere un certo effetto idrogeologico positivo dovremo attendere 50 anni. Dal punto di vista paesaggistico, si avrà un bel novellame in 20-40 anni. Per tornare ai livelli di prima serviranno 150-200 anni». Dipenderà tutto da temperature, precipitazioni, parassiti, danni da selvaggina. «Per la collettività è inusuale pensare su tempi così lunghi, sovragenerazionali, per noi è routine. Serviranno almeno vent’anni di accompagnamento e osservazione. In bassa quota, se cambia il clima togli i meli e metti giù i pomodori, nelle foreste non funziona così». Ora si fa affidamento sul senso di responsabilità dei proprietari (60% privati, 40% pubblici o interessenze). Per tutelare le varie funzioni del bosco: regimazione idrica, protezione da erosione e valanghe, ricreativa. Insomma, non c’è solo quella economica.













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