Via dalla crisi con la ricerca

di Francesco Palermo


Francesco Palermo


Solo vent’anni fa l’Alto Adige era un deserto per la ricerca. Mancavano università, centri di ricerca, incubatori di innovazione economica, e singole iniziative pur lodevoli non potevano certo colmare il vuoto. Il territorio rischiava di restare gravemente indietro rispetto ai vicini più prossimi, il Trentino e il Tirolo.
Che iniziavano a investire massicciamente in ricerca e formazione. Chiuso il Pacchetto, le cose cambiarono rapidamente. L’ultimo treno stava passando, ci si è accorti di dover salire e fortunatamente lo si è fatto. Dando vita prima all’Eurac (pensando inizialmente di poter impedire così l’università), poi all’università, e più di recente agli incubatori più direttamente legati al trasferimento tecnologico e al sistema delle imprese, come il TIS, il BIC, la sede Fraunhofer, il futuro parco tecnologico.
La coincidenza temporale con la chiusura del pacchetto non è casuale: la vicenda della ricerca in Alto Adige è indissolubilmente legata alla fase post-pacchetto, all’autonomia dinamica di cui rappresenta la punta più avanzata. E oggi la ricerca, proprio come l’autonomia, si trova di fronte a una crisi di identità e di crescita. Come l’autonomia degli ultimi anni, infatti, anche la ricerca ha compiuto passi rapidi e importanti, facendo dell’Alto Adige un centro di eccellenza mondiale in alcuni settori, non a caso soprattutto quelli legati alle specificità istituzionali, culturali e geografiche del “sistema Alto Adige”. Il tutto con costi molto ridotti, intorno all’1% del bilancio provinciale. Soldi che tra l’altro creano ritorni fiscali e indotto economico: gli enti pagano le tasse, i ricercatori che operano in Alto Adige spendono qui il loro stipendio, e i molti che vengono per iniziative di alto livello arricchiscono immensamente il territorio, anche economicamente.
Così come l’autonomia dell’ultima fase, il sistema della ricerca ha funzionato perché fondato su una crescita costante e su buoni risultati. Quando sono iniziate le difficoltà, specie legate alla crisi economica, sono però venute fuori anche le domande di fondo, e l’incertezza delle risposte. Dove si vuole andare? Quale modello di autonomia vogliamo? Quale modello di ricerca? E quale modello di autonomia della ricerca? Su queste domande si sta scontando una crisi di progettualità, che negli ultimi mesi ha visto succedersi diversi episodi importanti: i tagli ai bilanci, che hanno colpito la ricerca in modo assai maggiore rispetto alla contrazione complessiva del bilancio provinciale, le richieste delle imprese, le vicende legate al rinnovo del Consiglio di amministrazione dell’Eurac e ai rapporti con l’università, il nuovo ruolo del potere politico. Tutto deriva da una mancanza di chiarezza rispetto al ruolo dell’alta ricerca nel sistema Alto Adige, a sua volta dovuta alla più generale incertezza rispetto al futuro complessivo di questa terra. Se non sappiamo dove vogliamo andare e cosa vogliamo diventare, difficilmente sapremo come farlo. E la ricerca è lo strumento, non il fine, dello sviluppo di un territorio.
Come per l’autonomia nel suo complesso, anche nella ricerca, in questa fase di transizione, si contrappongono idee diverse, che cercano di imporsi in uno scontro nemmeno tanto latente. Il mondo imprenditoriale spinge molto perché passi (e sta passando) l’idea che ricerca e innovazione in tanto siano utili e da promuovere in quanto abbiano immediate ricadute per le imprese, possibilmente facendo finanziare l’innovazione e il trasferimento tecnologico (cioè ciò che dovrebbero fare in primo luogo le aziende) al sistema pubblico, per ottenere in altra forma ciò che prima erano gli aiuti diretti. Ovviamente questa è una funzione importante della ricerca, proprio perché essa è un sistema, non un’attività isolata, e deve beneficiare il territorio e da questo deve trarre beneficio. Quindi è essenziale che la ricerca presti attenzione al territorio e che l’amministrazione la incentivi a vantaggio dell’intero sistema, incluse ovviamente le imprese.
E proprio per questo, però, sarebbe miope guardare alla ricerca solo in relazione alle imprese. Il collegamento è vitale, ma funziona solo se la ricerca resta qualcosa di più ampio, e se si capisce che l’innovazione non è solo industriale, ma anche istituzionale e culturale. Anche perché, senza un sistema di ricerca complessivo, non si realizzano nemmeno i brevetti industriali. Tutte le esperienze del mondo dimostrano infatti che i territori più favorevoli alle imprese sono quelli con una politica complessiva della ricerca. Altrimenti è come dare il pesce all’affamato invece di insegnargli a pescare.
Poi c’è il ruolo della politica. Ad essa spetta di delineare lo sviluppo strategico del territorio. Cosa vogliamo essere tra vent’anni? E come arrivarci, sapendo che la ricerca ha un ruolo determinante nel processo di trasformazione sociale? Vogliamo essere un piccolo atollo autoreferenziale formando solo i quadri di domani, vogliamo avere una ricerca di alto livello ma politicamente orientata (è possibile: Cina e Russia insegnano), o vogliamo mantenere e aumentare l’eccellenza internazionale in settori strategici? Sono domande che anche altrove si pongono: a Trento la “provincializzazione” dell’università sta creando nuove opportunità e anche rischi di interferenza, e anche lì la fase attuale è di forte transizione - anche se il Trentino investe in ricerca più del doppio dell’Alto Adige. Le crisi di crescita sono normali e spesso produttive. Ma se durano troppo non si cresce più. E non ce lo possiamo permettere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità