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«Guerre e dolore: Non abbassiamo gli occhi davanti alla morte»

L’appello del vescovo: «È importante vivere insieme anche il momento di passaggio. Così ci salviamo dalla solitudine». Il commento all’attualità: «L’odio fa diventare ciechi, accade in tanti luoghi del mondo»


Paolo Campostrini


BOLZANO. Poi ci sono i cimiteri. Sono accanto ai paesi, di qua i morti, di là, ma vicini, i vivi. Dice il vescovo: «Ci offrono il senso di una comunità che continua a camminare insieme». È il senso di questa connessione che, per Ivo Muser, stiamo perdendo. E del fatto che dare dignità ai morti vuol dire non smettere mai di darla ai vivi. Anche i riti servono: «Tengono uniti. Ci fanno capire che il papà scomparso, la mamma, la sorella non appartengono solo a noi. Hanno avuto relazioni, amicizie. Ecco perché i funerali sono pubblici».
Ecco perché i cimiteri sono sempre aperti. E le ceneri non andrebbero anonimamente disperse. Quasi che chi abbiamo perduto sia solo nostro. Tanto che in questi giorni, oggi i Santi, domani i defunti, molti percorrono i nostri cimiteri indicandosi nomi, volti, passeggiandoci come se fosse una città che è soltanto passata dall’altra parte. Così, sorride amaro, il vescovo, a parlargli di halloween. E dice anche del senso di una tradizione che non è vuota. Oggi alle 14.30 si è tenuta la celebrazione al cimitero.

Oggi i negozi sono pieni di fantasmi anneriti e di maschere.
Non so che dire. Non vorrei che la Chiesa alzasse sempre il dito a dire: così non va. Ma questo rischia di mischiare il carnevale con qualcosa che con il carnevale non c’entra nulla. Halloween non ci aiuta. È una commedia, una mascherata. Per una volta, lasciatemi ribadire il senso di una tradizione che tiene dentro cose importanti e non solo commercio.

Cosa può significare questa freddezza diffusa nei confronti della liturgia, anche quella legata a questi giorni?
La liturgia non è soltanto forma. È sostanza nel momento in cui racchiude il senso di una comunità. I riti sono collettivi, mai individuali. Possiamo guardarli come l’espressione di una lunga fila di persone, nei secoli, che si è ritrovata insieme a pregare. Nel rito ci siamo noi oggi, ma anche, lo ricordo, quelli che ieri ci hanno preceduto.

Per dire cosa?
Che non esiste solo l’io. Esiste il noi. Stare insieme nei passaggi significativi della vita - la nascita o la morte - è condividere l’appartenenza di ognuno non solo a se stesso, ma alla famiglia, alla comunità, al gruppo sociale.

Se tutto viene vissuto individualmente che cosa ci può accadere?
Di rimanere soli. È questo che capita, quando non si riesce a cogliere il senso di una comunione, di un rito collettivo. Se non ci si muove come comunità, ma come singoli, aumenta la solitudine. Anche nella morte.

Per questo osserva con sguardo critico alla dispersione delle ceneri?
La presenza dei cimiteri, il loro essere un luogo aperto. E ancora, le cerimonie della sepoltura, vissute accanto a chi ha accompagnato il defunto in vita, sanciscono un patto tra chi c’è e chi non c’è più. Ma che vive non solo dentro chi gli è stato più vicino, ma anche nella connessione con tutti gli altri.

E dunque?
La dispersione sancisce l’anonimato. Ma in fondo anche l’autoreferenzialità di una scelta: decido io per lui. E in ogni caso decido che gli altri non c’entrano. Le esequie sono invece un incontro aperto tra chi vive e chi muore. E chi muore ha un nome. Ha avuto una vita. È lui, non altri. Non tutti. Lei parla di dignità. È il centro. La vita è sacra. Va tutelata in tutte le sue espressioni.

Si sta perdendo la sacralità della morte?
Il rischio è che così facendo, trattando anonimamente la morte, desacralizzandola con tradizioni importate e commerciali, si perda proprio, con quella legata alla morte, anche l’unicità e dunque il sacro che c’è dentro la vita stessa.

Stiamo passando dalle morti per la guerra in Ucraina a quelle per la guerra proprio nei luoghi santi. Ci stiamo abituando a vederla, come ci si vaccina nei confronti dell’orrore?
L’odio fa diventare ciechi. È questo che accade in tanti luoghi del mondo. Evitando di guardare alle sofferenze degli altri, qualunque “altro”, si perde l’umanità. E la ragione è che, in questi casi, non si osserva mai dall’altra parte dello steccato. Ci si accuccia nel proprio, non si alza lo sguardo. Evitando di cogliere, nell’altro, le nostre sofferenze.

Chiede di non abbassare gli occhi davanti alla morte?
A nessuna. E neppure davanti alla nostra. Va sempre ricordato che la morte ci rende tutti uguali. A pensarci, questo è un messaggio di profonda dignità. Dovrebbe farci intendere che la vita che precede questa uguaglianza nel dopo, va vista con uguale senso di umiltà anche nel “prima”. Siamo vicini. E la morte ci accomuna. Evitiamo dunque che sia la vita a dividerci, togliendole quel sacro che tutte le vite hanno in sé.













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