I parrocchiani fanno i volontari per i detenuti 

A guidarli Paola Spagnoli, 31 anni, operatrice della Caritas «Lavoriamo con le persone e non con reati che camminano»


di Massimiliano Bona


MERANO. Merano ha deciso di fare rete, con le sue Parrocchie, per aiutare i carcerati. E per creare uno zoccolo duro di volontari ha organizzato una serie di incontri con il sostegno della Caritas, impegnata da anni nel progetto “Odós”. In greco significa strada e il servizio intende aiutare detenuti ed ex-detenuti a ritrovare la via perduta. A metterci la faccia, l’altra sera alla parrocchia di Santo Spirito, è stata Paola Spagnoli, 31 anni, che in carcere va due volte a settimana.

Qual era il senso dell’incontro con i parrocchiani?

«Parlare di un tema che può sembrare lontano, ma non lo è: il carcere. Abbiamo messo al centro argomenti come il senso della pena e la necessità di riconoscere chi sta scontando una pena come persona e non come un “reato che cammina”».

Quali sono i sacerdoti a cui vi siete appoggiati finora per sviluppare un progetto obiettivamente ambizioso?

«Don Gabriele Pedrotti di Santa Maria Assunta e don Gioele Salvaterra di Santo Spirito».

Ma il parrocchiano che decide di dare una mano cosa fa concretamente?

«Ci confrontiamo, non di rado, con persone chiuse in casa per gran parte della giornata. Aiutarle può voler dire accompagnarle una volta alla settimana a fare la spesa. Nel caso dei detenuti in permesso la nostra è una forma di accompagnamento a sostegno della quotidianità».

Qual è il senso del progetto «L’utente che non c’è» che state portando avanti anche nelle Parrocchie?

«L’obiettivo di questi incontri è quello di attivare le comunità nel leggere e riconoscere situazioni di disagio e nel farsi più vicine a chi – nell’espiazione della sua pena – vive una situazione di vulnerabilità».

Ma ci sono corsi mirati per formare volontari di questo tipo?

«Sì, certo. Il confronto dell’altra sera a Merano è stato, per così dire, preparatorio. Nei primi mesi del 2018 partiranno i corsi per formare volontari più strutturati. In grado di entrare, all’occorrenza, anche in carcere. I parrocchiani che continueranno questo percorso potranno dare un contributo importante sul territorio. Anche per questo ci stiamo muovendo soprattutto fuori da Bolzano».

Dovendo scegliere i carcerati da seguire più da vicino ha rilevanza anche il reato commesso?

«Non facciamo questo tipo di distinzioni. È fondamentale, al contrario, la motivazione di ciascuno».

Si tratta soprattutto di stranieri?

«Non necessariamente, ma sono in leggera maggioranza. Molti di loro sono radicati in Alto Adige, hanno moglie e figli qui. E prima di entrare in carcere avevano anche un lavoro».

Quanti, alla fine, riescono a reinserirsi con l’aiuto dei volontari e degli operatori Caritas?

«È difficile fare statistiche ma li seguiamo passo per passo, creando reti protettive assieme agli altri servizi. L’apporto dei volontari, in ogni caso, si rivela sempre più prezioso».

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