«Inutile mettere la lapide in piazza se poi manca il coraggio civile» 

Ebrei, memoria, Alto Adige, Europa. Conversazione con lo storico, partendo dalla realtà meranese per gettare uno sguardo sul mondo «Ogni simbolo deve essere nutrito di valori, la memoria non è neutra»


Sara Martinello


Merano. Ha diretto per otto anni il Museo nazionale dell’ebraismo e della Shoah di Ferrara. Ha ricoperto cattedre a Ca’ Foscari e all’Università della Tuscia. Ha ottenuto il Premio Cultura della presidenza del Consiglio dei ministri il Premio europeo della cultura e ha seduto tra i giurati del Campiello. Ha scritto decine di opere sulla storia dell’ebraismo veneziano, italiano ed europeo. Ma gli elenchi delle imprese non restituiscono quella sensazione di pace che si prova di fronte a Riccardo Calimani, lo storico che quando ci si presenta al Westend fa capolino tra le pareti di broccato con un sorriso affabile che lava via la deferenza.

È il dentista Roberto Frediani la ragione che l’ha spinto fin quassù. Ci incontriamo durante un pomeriggio piovoso. Un’impiegata dell’albergo imbraccia la voliera dei pappagalli per portarla in un’altra stanza: «Se no nell’intervista ci finiscono pure loro». Lui si fa complice di questa vita in gabbia. «Magari ci dicono qualcosa di interessante». Il primo libro l’ha scritto a 15 anni. Poi la laurea in ingegneria a Padova e quella in filosofia della scienza a Ca’ Foscari. E nelle sue parole c’è proprio l’uomo di scienza diventato lettore del mondo.

Eccoci a Merano, con quella lapide a ricordo dell’Olocausto messa al margine della città, dietro un cancello chiuso. Ci si va il 27 gennaio, si fanno i discorsi e si richiude il cancello.

Io credo che su queste questioni ci voglia molto coraggio civile. Bisogna ricordare il passato, guai a dimenticarlo, ricordare il passato come monito per migliorarsi. Ricordarlo soltanto per “celebrarlo” è troppo poco. La storia deve essere un monito morale, etico, per evitare le ingiustizie future e per far maturare un senso civico di unione e di incontro all’interno delle popolazioni. A Merano c’è una piccolissima comunità. In Italia, nel 1938, c’erano 40 milioni di italiani. Di questi, 47 mila erano ebrei. Mussolini trasformò questa piccola minoranza in un nemico potentissimo, e ancora oggi nella testa delle persone c’è il pregiudizio che gli ebrei siano molto importanti. Lo sono per motivi culturali, per motivi religiosi, lo sono perché esiste una legge della percezione psicologica che dice che se tu vedi mille palline nere e una bianca, tu vedi palline bianche e nere. L’ebreo è sovraesposto e sovrastimato. Ma detto questo come discorso psicologico generale, io penso che in una società le minoranze – sia una minoranza ebraica, sia una minoranza di madrelingua tedesca in Italia – hanno un ruolo molto importante, perché, ognuna per proprio conto, tengono viva la società e contribuiscono a dare alla società nel suo complesso una coscienza civile e morale che probabilmente se ci fosse un appiattimento senza minoranze non sarebbe possibile.

Questo secondo Lei si può osservare anche nelle realtà urbane più piccole?

Credo di sì. Perché questo sia effettivo ci deve essere un rapporto maggioranza-minoranza, ci deve essere uno scambio culturale autentico, non ci si può guardare da lontano e fermarsi lì. È molto importante dare un senso culturale, civile e sociale a questi rapporti. Oggi è diverso da ieri: le frontiere una volta erano limiti invalicabili, oggi è l’Europa a doversi dare una dignità e ampliare i propri confini.

Tornando alla lapide, sa che qui alcuni reclamano una posizione più centrale e visibile, per quel monumento?

Bisogna preparare le nuove generazioni, far capire che quel che è successo è inconcepibile e che perciò non deve accadere mai più. Importante non è la lapide in sé, ma è il simbolo, un simbolo che deve essere nutrito di valori, quindi una classe dirigente non deve decidere di spostare la lapide in piazza “perché così si vedrebbe di più”.

Di nuovo una posizione nascosta?

Sì, sarebbe solo una lapide. Deve diventare un monito non solo contro l’antisemitismo, ma contro tutti gli arbitrî assurdi. La razza non esiste, il razzismo invece sì. Siccome in questo momento nel nostro paese ci sono sussulti razzisti, bisogna “approfittare” del passato per non ripeterlo. In sé la lapide è un simbolo che se lo nascondi vuol dire che non hai voglia di sviluppare un ragionamento.

Forse dimenticare può sembrare la via più comoda.

Certo. Dimenticare è una necessità degli individui. Ricordare è pesante: la memoria non è una cosa facile e neutra, dà sofferenza. Ecco, posso capire che molti vogliano dimenticare. Guai a ricordare tutte le brutture e le ingiustizie del mondo.

C’è qualcuno che più di altri deve ricordare? Pensiamo a insegnanti o amministratori.

Sì, ma non è questione di categorie, è questione di sensibilità personale e di avere i mezzi intellettuali di far capire che una personalità armonica, una crescita intellettuale, una crescita morale passano attraverso il ricordo. Ricordo che non deve diventare ossessione, bensì coscienza di sé e degli altri. In un ambiente dove si riesce a dare senso alla memoria aumenta l’armonia civile, diventa più piacevole vivere.

Le sembra che oggi ci siano i presupposti perché la storia si ripeta?

No. Ma le faccio una sequenza di nomi: Trump, Johnson, Orbán, Erdogan, qualcun altro l’avrò dimenticato. Vede, la democrazia è una pianticella che va coltivata e salvaguardata ogni giorno. Non si può pensare di essere in democrazia sempre e che sia finita lì. Bisogna conquistarsela, la democrazia, e capisco che non è facile.

Di recente un consigliere comunale della Lega ha presentato una mozione che accosta antisemitismo e antisionismo. Lei che cosa ne pensa?

Timeo Danaos et dona ferentes (sorride). Quando arrivano proposte dai seguaci di Salvini nutro un forte scetticismo. Mi piacerebbe che questa disponibilità dei leghisti fosse aperta non soltanto nel tentativo di rendersi simpatici al mondo ebraico, ma anche a tutto il resto del mondo.

Il consigliere è di religione ebraica.

Non cambio idea. Francamente credo che oggi parlare di antisionismo non abbia molto senso, perché si rischia di confonderlo con la politica del governo israeliano. Vorrei mettere in chiaro alcuni concetti. Sono assolutamente a favore sia del popolo israeliano, sia del popolo palestinese, perché credo che per entrambi il vero interesse sia fare presto e bene la pace in quei territori. Detto questo, va chiarito che sono a favore dello Stato di Israele, come sarei domani a favore di uno Stato palestinese pacifico, quindi in armonia. Detto ciò, va chiarito che questo non significa appoggiare sempre e comunque le scelte dei governi, perché lo Stato è una cosa, mentre dei governi si può non condividerne le scelte, li si può criticare, e chi confonde i governi con gli Stati fa male, perché evidentemente strumentalizza questa complicatissima questione.

Questo doveva essere l’anno di eventi in ricordo del breve periodo che Kafka nel 1920 passò a Merano. Gli hanno dedicato uno slargo e una scultura.

(ride) Sarebbe rimasto molto sorpreso.

Ma ha senso questa tensione alla Mitteleuropa, che poi si realizza in un continuo guardare all’Austria?

Non bisogna artificialmente combattere queste nostalgie. Bisogna integrarle e renderle produttive. Qui la nostalgia verso l’Austria forse è più verso la sua parte meridionale, l’Austria rurale, non tanto verso Vienna, così lontana, più un mito che una realtà. Le piccole patrie, come può essere il Sudtirolo, sono molto importanti. Io sono di Cannaregio. Sono veneziano, sono italiano, sono europeo, sono cittadino del mondo. Tutte queste identità sovrapposte devono essere armoniche. Quindi pur essendo di Cannaregio sono cittadino del mondo. Ciò non toglie che il Sudtirolo possa essere la “piccola patria d’origine”, come diceva Heine, che si integra in una grande patria europea del passato e del presente e che a sua volta è nel mondo. Nessuno di noi ha una sola identità, e se ti riduci a volerne rivestire una sola diventi subito più povero.

Com’è guardare questo mondo da conoscitore della storia degli ebrei?

Posso parlare per esperienza personale. Quando i miei antenati entrarono nel ghetto di Venezia erano tra i primi ebrei della cosiddetta “nazione todesca”. Nei secoli precedenti erano arrivati in Italia meridionale dalla Grecia, come si capisce dal cognome, traduzione dell’ebraico shemtov, (“kalò ònimos”, “buon nome”, ndr). Poi andarono a Lucca, da dove Carlo Magno li ha portò nella valle del Reno. Erano esponenti degli ashkenaziti hasidim. Tornarono in Italia dopo la peste nera del 1348. Nel 1500 entrarono nel ghetto, e il primo della famiglia a esserne uscito sono io, nato nel 1946. Da parte di madre, invece, un fantaccino dell’esercito austriaco di nome Mendelhirsch, proveniente dalla Galizia austriaca, arrivò a Venezia nel 1870 e chiamò suo figlio Riccardo. Questo Riccardo era il padre di mio nonno. Mio nonno chiamò così suo figlio, che fu deportato durante la guerra. Io porto il suo nome. Insomma, ho la fortuna di conoscere la mia storia familiare. Se sai da dove vieni è più facile sapere dove devi andare.

Nel mondo di oggi vediamo le rivolte contro la schiavitù del capitale. Schiavitù che in forme diverse attraversa i secoli e arriva ai nostri giorni. Qualcuno pensa di poter mettere vicine questa e altre lotte.

A fare paragoni si rischia di essere fuorvianti. Questo non significa che la lotta di oggi sia meno degno della lotta del popolo ebraico, però ogni popolo ha le sue eredità, quindi a rendere tutto simile si rischia di semplificare troppo. Ogni storia va apprezzata per le sue singolarità.

C’è chi parla di “razzismo” quando invece la questione può essere la differenza tra classi sociali, il patriarcato o in generale una tara culturale.

Si rischia di fare confusione, e forse qualcuno lo fa anche apposta. Quando tutto è uguale diventa difficile spiegarsi meglio: è uno sforzo, pensare cose diverse di cose diverse. L’economia del pensiero induce a ritenere che tutto sia uguale, così si sta tranquilli.

Un’ultimo tema. L’impressione è che i meranesi siano legati a un passato piuttosto fastoso e che tendano a svilire la città per come la vedono oggi. Ha avuto anche Lei quest’impressione?

Non l’ho avuta. Comunque trovare i difetti di un posto è tipico di chi ci vive, ma è un atteggiamento un po’ miope. Per conoscere un luogo bisogna venire da fuori.

Jacques Offenbach, nato Jacob, arrivò a Parigi da Francoforte sul Meno. E scrisse una musica che era la quintessenza dell’essere parigini. Che sia stato un ebreo tedesco a scrivere il can can dà l’idea che per capire un luogo bisogna essere stranieri. Chi vive in un posto crede di conoscerlo, ma è una consuetudine, non una scoperta, mentre chi viene da fuori scopre.

E in Alto Adige?

Fino ad alcuni decenni fa, col nazionalismo di Magnago, si sentiva ancora il conflitto latente causato dalla memoria storica. Oggi secondo me non si sente più. La doppia lingua ha un vantaggio, apre il cervello. Una stessa cosa non può essere definita in un modo solo, ma in due modi complementari. E poi la lingua tedesca ha una precisione di linguaggio, quelle parole composte... L’importanza di queste zone sta nel fatto che possono essere il seme per un’Europa più armonica, cosa della cui difficoltà ci stiamo rendendo conto. Quindi in questa che una volta era una terra di frontiera a me fa un po’ ridere che ci sia la controversia se chiamarla Alto Adige o Südtirol, perché vanno bene tutte e due le cose.

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