La storica band del rock alpino dà l’addio al suo pubblico 

Vinorosso. Nuovi ritmi di vita impongono uno stop al gruppo meranese che ha esportato il genere dell’unione danzante di italiani e tedeschi Il frontman Simon Staffler racconta dieci anni di successi e divertimento «Vedere gli spettatori seduti mi ha fatto male, noi facevamo ballare»


Jimmy Milanese


Merano. Dieci anni esatti, dal 14 agosto del 2010 al 17 agosto di quest’anno, con l’ultimo concerto alle Terme di Merano. Forse è questa la durata perfetta per una band capace di mettere assieme decine di musicisti e il meglio della scena meranese. I Vinorosso, con un annuncio a sorpresa, non ci sono più. La celebre band che ha portato fuori provincia il suo concetto di “Alpine Welt Music” ha deciso di dire basta, o almeno di prendersi una pausa.

L’esperimento era di quelli capaci di far saltare dalla sedia la politica locale, visto che il gruppo di amici e musicisti era riuscito a connettere i cittadini di madrelingua italiana a quelli di madrelingua tedesca grazie al grimaldello della musica. Una ricchezza multiforme che è stata capace di catturare le attenzioni di un vasto pubblico, anche grazie alle indubbie capacità di leader del frontman Simon Staffler, accompagnato ultimamente da Thomas Ebner alla batteria, da Michele Bazzanella al basso, da Stefano Nicli alla chitarra, da Marco Pisoni al sax, da Christian Stanchina alla tromba e da Christian Kuppelwieser alle tastiere.

I ragazzi avevano eletto la figura storica del Saltaro, il protettore delle vigne, a patrono della loro formazione che alternava pantaloni in pelle tirolesi, jeans, sneakers, ma anche tatuaggi, orecchini e quanto di più folk rock possa rendere una band. “Nati tra le montagne”, il loro motto e ultimo CD, oltre 5 mila i follower su Facebook e una carica elettrica che emanava dalle loro performance.

Allora, Simon, sono passati esattamente dieci anni, ma com’è iniziato tutto?

Per puro caso, perché Seppl Lamprecht, vicepresidente del Consiglio regionale, cercava un gruppo di madrelingua tedesca per un tour culturale in Romania, Croazia e Ungheria. L’idea era di dare spazio a una rappresentanza interculturale delle minoranze linguistiche di questi paesi, quindi sono stato contattato poiché avevo altri progetti musicali, e da lì ho fondato i Vinorosso. Abbiamo preparato una decina di canzoni per quell’evento e partecipato a un tour di dieci giorni.

Com’è proseguita la vostra esperienza?

Il padre di Sven Albertini, organizzatore del festival di Emergency di Merano, ci ha chiesto se volessimo suonare durante una delle serate. Abbiamo detto di sì, e da lì ogni esibizione ci ha portato un nuovo concerto.

E i Vinorosso che musica facevano allora?

Una musica simile a quella di adesso, a cavallo tra ska, jazz, blues, insomma musica per far ballare le persone. Tanta energia e un gruppo capace di trasmettere vibrazioni dal palco al pubblico. Questa la formula vincente del gruppo.

Ci parla dei due album realizzati?

Nel 2012 il primo, dal titolo “Ritornare a casa”. Eravamo ancora studenti, tornare a casa per noi significava qualcosa. Abbiamo realizzato un video e una presentazione, poi la promozione è andata molto bene. Uno dei pezzi è ancora molto cliccato, attualmente ha superato gli oltre 100 mila ascolti. All’epoca eravamo tra i primi a fare tour professionali e a uscire dall’Alto Adige, perché chi faceva musica di quel genere, tipicamente, non usciva dalla nostra provincia.

E il secondo album, più recente?

Per il secondo album ci abbiamo messo ben sei anni, alla costante e complessa ricerca di uno stile adatto a tutti i componenti della band. Nel 2018 è uscito “Nati tra le montagne”. Molto più professionale, noi più precisi, volevamo fare un prodotto che ci piacesse. Perché il primo CD è nato anche per soddisfare la richiesta di musica del pubblico, mentre nel secondo abbiamo messo più la nostra voglia e idea di musica.

Dicevamo, concerti all’estero, ritorni in Alto Adige e presenza fissa a Emergency.

Sì, come nel 2018 in piazza Terme di fronte a oltre 2500 persone, oppure ad Emergency, dove suonare era come un tornare a casa, insomma un appuntamento fisso con la nostra Merano.

Ma da dove nasce il nome “Vinorosso”?

Perché quando abbiamo iniziato a suonare assieme, in quattro ci facevamo una bottiglia di vino rosso. Da lì l’idea del nome. Quando ho fondato i Vinorosso bevevo solo birra e vino scadente, poi è nata una passione che ho trasformato in professione, forse anche da quel messaggio subliminale.

In che senso?

Sono redattore e degustatore di vino per la rivista Falstaff e degustiamo 4-5 mila bottiglie l’anno, dal Brennero a Pantelleria.

Perché avete deciso di smettere?

Era da gennaio che ci pensavo, per continuare con un gruppo di questo livello ci vuole energia e oggi abbiamo tutti più di trent’anni, alcuni sono genitori e le priorità in certi casi sono diverse. Poi è arrivato il Covid, noi facciamo concerti ballabili di fronte a centinaia di persone e non sappiamo quando potremo tornare sul palco.

Ma quell’ultimo concerto del 17 agosto in piazza delle Terme?

Le persone erano sedute e distanziate. Alla fine hanno anche ballato, ma per me non era soddisfacente, mi faceva male vedere le persone immobili. Quindi una somma di argomenti contrari hanno portato a questa dolorosa decisione: l’energia non era uguale a quella di prima.

Nelle sue parole si legge dolore.

Ci vuole più forza a dire di no che a dire di sì. Per questo vorrei ringraziare tutti quelli che ci conoscono, per il loro supporto durato dieci anni. So che per tanti la notizia è stata triste, lo è stato anche per me. La cultura in Alto Adige ha bisogno di supporto, soprattutto in questo periodo. Finché non si riesce a fare squadra in ambito musicale, siamo persi.

Senta, ma un ritorno dei Vinorosso è immaginabile?

Mai dire mai.













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