Auschwitz ti cambia per l’emozione che dà e l’energia che lascia 

Giorno della Memoria. Un anno fa il viaggio dei ragazzi di Promemoria e Arno Kompatscher La visita ai campi di sterminio ha lasciato ricordi indelebili nei protagonisti di quell’esperienza Le reazioni dei giovani, il luoghi della tragedia, ogni passo e ogni sguardo segnano nel profondo


Fabio Gobbato


Bolzano. Sono molte le immagini che ricordo dopo il viaggio di un anno fa ad Auschwitz con i ragazzi di “Promemoria” per documentare la visita del presidente Arno Kompatscher, primo Landeshauptmann a varcare in veste ufficiale i cancelli del campo di sterminio. Ma a restare impressi a lungo nella memoria saranno soprattutto gli aneddoti raccontati da due ragazze riguardanti una disperata preghiera ad Allah e una foto prima scattata e poi cancellata da uno smartphone. Due storie che riassumono il senso di uno dei progetti culturali simbolicamente più importanti che le istituzioni euroregionali abbiano mai deciso di finanziare, dando ogni anno l’opportunità a circa 400 ragazzi della regione Trentino Alto Adige di visitare i campi con una spesa minima. Quest’anno, causa Covid, la visita sarà invece virtuale (iscrizioni aperte fino al 31 gennaio, informazioni al sito www.deina.it/promemoria-auschwitz).

I racconti dei ragazzi

È sabato 8 febbraio 2020, il “day after”. La lunga visita del giorno prima ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau ha lasciato pesanti strascichi. All’Hotel Demel, nella prima periferia di Cracovia, i quaranta ragazzi del gruppo “Bolzano 2” guidato dai tutor Andrea Rizza e Andrea Tommasini stanno facendo “debriefing”. Inizialmente sono chiamati a scrivere degli haiku, associando i colori che rievocano le emozioni provate a delle immagini che sono rimaste loro impresse. Poi arriva il momento di “buttare fuori”, parlando a ruota libera. Nessuno si tira indietro. Ad un certo punto prende la parola Diana: «Prima di qualche momento significativo – racconta - scrivo sempre. Mi piace scrivere. Butto giù le mie idee, cerco di definire le aspettative e poi, quando il momento è trascorso mi piace andare a rileggere e vedere come me lo sono vissuto veramente. E magari scrivere di nuovo. Sul pullman verso Auschwitz ascoltavo musica. Ad un certo punto compare il cartello “Auschwitz km 9” e vengo improvvisamente colta dal panico. Spengo. Di chilometro in chilometro divento semplicemente più terrorizzata. La mia famiglia, di origine musulmana, non è molto religiosa. E io non lo sono per niente, non prego mai Allah. A 3 km la paura è talmente tanta che inizio a pregare. Ma dopo qualche secondo smetto. “Cosa sto facendo?” Mi sono detta, Dio, se esiste, non ha mai varcato i cancelli di Auschwitz, non può averlo fatto, non ha senso che io lo preghi. Finita la visita, durante il rientro in pullman ci chiedono di mettere giù un pensiero o una riflessione. E io che scrivo sempre tutto, per la prima volta sono bloccata, non mi viene neanche una riga. Sono sopraffatta. È tutto così troppo grande … ». La ragazza, allora maturanda, la cui famiglia viene dall’Albania, mentre parla tradisce una forte agitazione e una grande fatica a trattenere le lacrime. Ma ogni volta che apre bocca – e lo fa spesso - dice cose estremamente sensate. Si capisce che ha l’urgenza di far uscire quello che il giorno prima non è riuscita a trasferire su un pezzo di carta. Sempre Diana in precedenza aveva esternato tutta la propria indignazione perché prima della partenza un amico di suo padre l’aveva derisa per il viaggio che stava per fare “visto che la metà delle cose che dicono non sono mai successe”. «Non dovrebbero solo venirci tutti gli studenti, ma anche molti adulti», ha chiosato quindi una sua collega. Già, molti, e sempre di più.

Il dibattito è davvero interessante. Ad un certo punto prende la parola Claudia, ragazza di madrelingua tedesca, come circa un terzo dei componenti del gruppo. La studentessa meranese racconta l’altro aneddoto che è destinato a restare a lungo scolpito nella mia memoria e che fa comprendere il lavoro di preparazione fatto dai tutor di Promemoria Auschwitz. «Ci avevano detto – racconta, cercando a fatica le parole - di non fare foto all’interno degli spazi dei campi, e nessuno di noi le ha fatte, o solo alcuni ragazzi che dovevano fare un report per la scuola. Entrare a Auschwitz e poi a Birkenau è stato molto triste, molto emozionante. Io non ho mai pensato di fare una foto. Poi uscendo da Birkenau, c’era il sole, non faceva troppo freddo, e con un nostro gruppo avevamo deciso di fare una foto ricordo tutti assieme. Una foto normale, come una testimonianza del fatto che siamo stati lì. Ma poi ci siamo detti che forse era sbagliato comunque. Ne abbiamo parlato a lungo e alla fine abbiamo deciso di cancellare per sempre quella foto. La testimonianza della nostra visita resta solo dentro di noi, nei nostri occhi. È giusto così». Il racconto ha avuto su di me un impatto molto forte per due ragioni. Da un lato la gioia nel poter constatare che ci sono giovani della “generazione-selfie” capaci di fare una scelta del genere: cancellare ogni traccia digitale di un evento molto importante e affidarlo unicamente alla propria memoria. Per nulla banale. Dall’altro la testimonianza ha riaperto le mie personali ferite e i sensi di colpa per le foto scattate il giorno prima. Camminando in fila indiana nel luogo più intriso di dolore del mondo, ogni volta che premevo il pulsante e nel silenzio totale si sentiva il clic dell’otturatore, a me, che fotografo non sono nemmeno di livello amatoriale, si gelava il sangue nelle vene, come se stessi violando l'intimità di chi veniva inquadrato.

Una bomba emozionale

Riguardando il quaderno pieno di appunti, la frase pronunciata più volte quella mattina durante il “debriefing” all’Hotel Demel è stata: «Tutti dovrebbero venire almeno una volta a visitare questo posto». E i ragazzi hanno probabilmente ragione. A volte nel visitatore scatta un meccanismo di protezione che fa da scudo e impedisce di provare qualunque emozione per poi magari rielaborare tutto giorni dopo. Ma più spesso, vedendo la scarpetta di un bimbo, il groviglio di occhiali, la montagna di capelli, o se riaffiora un ricordo famigliare, ad un certo punto, nel corso delle cinque-sei ore di visita, all’interno, da qualche parte, è come se esplodesse una bomba emozionale. Sembra di poter percepire le urla disperate, i silenzi rassegnati, i tonfi dei corpi che crollano al suolo, gli sguardi compiaciuti dei carnefici di settant’anni fa. E nel montaggio impazzito del film che scorre nella testa si sovrappongono le immagini dei “nostri” genocidi, appaiono le fosse comuni di Srebrenica o i corpi fatti a pezzi con il machete in Rwanda, i 12.000 cadaveri annegati nel Mediterraneo e i volti ghignanti dei carnefici in doppiopetto di oggi. Ronzano nelle orecchie le frasi serenamente razziste pronunciate da un’anziana in autobus la settimana prima, o le sparate para-naziste scritte sui social media da tranquilli padri di famiglia. Per me il momento della deflagrazione è arrivato a circa metà del percorso di Auschwitz quando ho realizzato che inspiegabilmente fino a quel punto il mio cervello, nonostante i libri letti sulla materia, non aveva immagazzinato un’informazione a dir poco cruciale. E cioè che sono circa 1,5 milioni i bambini vittime della Shoah. Un’enormità. Ricordo come fosse ora il momento in cui il cervello e il cuore si sono spenti e ho continuato a camminare come un automa seguendo il fiume di persone, per lo più giovani, incrociando centinaia di sguardi stralunati, impauriti o allagati di lacrime. Per uscire dallo stato catatonico è bastata poi l’energica “strofinata” su una spalla da parte di un tutor. Una liberazione. E la disperazione più cupa ha lasciato il posto ad una tristezza “normale” e ad un insolita rabbiosa energia.

Un’esperienza che cambia

Può sembrare retorico, ma questa viene definita un’esperienza - lo dicono tutti coloro con cui ho parlato - che ti cambia la vita. Cos’è che cambia, allora? Difficile sintetizzare senza banalizzare, ma è proprio quell’energia che resta dopo, forse, la chiave. Una voglia matta di giustizia, di fratellanza e di “bene”. Uscito da lì confidi non solo del fatto che non ti girerai dall’altra parte se vedrai infliggere sofferenza a qualcuno, ma che farai il possibile per opporti, per contrastare tutte le ingiustizie che precedono quel gesto. O almeno speri che sia così. Per esserne sicuro Kim, 47 anni ma ne dimostra 34, ci torna ogni anno dal 2009. Nato e cresciuto a Genova, nei primi anni Novanta, è “stato adottato dalla comunità punk di Monguelfo”, racconta, e oggi parla un südtirolerisch praticamente perfetto. Kim è una vera istituzione del Progetto Promemoria Auschwitz e non ha intenzione di smettere di fare il tutor. Ha bisogno di continuare a far circolare ciclicamente “quella” energia.

Organizzazione perfetta

Al di là del viaggio è comunque tutta l’esperienza che è costruita in modo perfetto. I ragazzi fanno ben cinque incontri preparatori prima del viaggio. Vengono scelti in base ad una graduatoria stilata dagli organizzatori in base ai contenuti delle “lettere motivazionali”. Gli studenti, poi “lavorano” praticamente sempre, anche durante il lungo viaggio notturno in treno dal Brennero a Cracovia. Ogni giorno i gruppi si riuniscono e si tengono dei workshop tematici. E tutti, ma proprio tutti sono chiamati a dire qualcosa. Qualunque cosa. Anche la lunga camminata nell’ex Ghetto di Cracovia con la successiva visita allo stupefacente museo Schindler (quello del film di Spielberg, che ha co-finanziato l’opera) sono tappe fondamentali per arricchire il complesso percorso di conoscenza. Davvero ben strutturata l’assemblea finale nell’auditorium dell’Università alla quale partecipano i ragazzi di tutta Italia ed anche i tirolesi (800 in ognuno dei tre treni che vengono organizzati). Magari dall’esterno sembra un po’ una forzatura, ma c’è un momento dell’assemblea nel quale i ragazzi sono chiamati ad uscire dai “banchi” e ad abbracciarsi a caso. Li vedi tutti sorridenti, per nulla imbarazzati, e capisci che è una forzatura di cui hanno bisogno, che quello è semplicemente un modo per dire “questa esperienza ci affratella”. Dopo quest’ultimo momento di riflessione “serio” nell’Auditorium diventa quindi ancora più “obbligatoria” la presenza di tutti alla festa finale in un locale dello splendido e vivace centro storico di Cracovia. Danze liberatorie fino all’alba.













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