La storia

Calamaio e pennino d'acciaio, la scuola del duce



Credo di poter dire che quella di oggi sia la generazione dei “cellulari”. Se ne vedono dappertutto, in mano a tutti, anche sugli autobus, e tutti a parlare nelle non poche lingue della ormai multietnica Bolzano. Colloquiano - i giovanissimi - con interlocutori lontani, le loro dita si muovono agili su minitasti tra i quali gli anziani si districano a fatica, compitando. No, i cellulari non sono più cose per gli odierni passeggeri dai capelli bianchi, che nel considerare questa nuova gioventù vanno col pensiero ad anni lontani, quando loro, gli anziani, venivano associati alla categoria della “giovinezza, primavera di bellezza”.

Oggi questi piccoli miracoli di una tecnologia che consente mille cose una volta impensabili, sono in mano a tanti giovanissimi - ma non solo - ed inducono a ricordare la scuola di una volta, quando ci si andava (magari in tram) portando nell’astuccio i pennini d’acciaio, da immergere nell’inchiostro dei calamai che si trovavano sui banchi, e c’erano le penne, e i quaderni a righe differenziate per le varie classi, dalle aste alle lettere sempre più piccole, e le gomme per cancellare per matita e inchiostro (impresa difficile quest’ultima), e i fapunte che si giravano attorno alla matita e si formavano allora trucioli a spirale, liberando la mina di carbonio con la quale si scriveva, e le matite si chiamavano anche lapis che però non si usava tanto perché sembrava una lingua straniera, e le lingue straniere erano proibite (ma lapis veniva dal latino!). E c’era nella cartella anche il nettapenne, che era fatto dalla mamma con piccoli ritagli di stoffa multicolore cuciti insieme con due bottoni sui due lati. E c’erano anche il quaderno a quadretti per la matematica e quello a righe per l’italiano, con la loro brava carta-asciugante per assorbire l’inchiostro, e c’erano il libro e il sussidiario, con tanti bei disegni a colori e le storie che la signora maestra ci insegnava, e nelle quali si esaltava il Duce, con la “d” maiuscola, che aveva fatta grande la nostra amata Italia. Tutti questi oggetti erano racchiusi nelle cartelle, che erano di cuoio per i figli della borghesia - come me - e di cartone finto-cuoio per i figli degli operai che le portavano sulle spalle, e mentre le cartelle a mano di cuoio i nostri papà le comperavano, quelle dei figli degli operai di cuoio finto erano regalate dal Regime, che si scriveva con la “r” maiuscola, e questi nostri compagni poveri (così si diceva) dopo la scuola mentre noi andavamo a casa a pranzo, restavano in scuola dove mangiavano alla refezione, anche quella gratis.

E tutti facevamo parte della Gioventù del Littorio: io sono stato due anni Figlio della Lupa (la Lupa era Mussolini!), e il sabato fascista giravo in divisa e andavo per l’addestramento alla G.I.L. femminile di ponte Druso prima, e poi come Balilla andai a quella maschile di via Vintola, e marciavamo cantando gli inni fascisti che ricordo tuttora, e io suonavo il tamburo in prima fila. Ci avevano insegnato che Balilla era il soprannome di Giovan Battista Perassi, il ragazzo di Portoria che “sta gigante nella storia” perché a Genova lanciò il primo sasso contro gli odiati austriaci, dando così il via ad una sollevazione (a distanza di anni capii che non vi fu mai un Balilla, bensì un Baciccia, che era il soprannome genovese dei Giovanbattista, e che l’equivoco nasceva dalla lettura errata di un resoconto della polizia scritto in caratteri gotici, dove le “c” appaiono come altrettante “l”). E poi, non sarebbe stato abbastanza marziale cantare “i figli d'Italia si chiaman Baciccia”! Eravamo fascistelli inquadrati, come in Germania i nostri coetanei della Hitlerjugend e in Unione Sovietica i “giovani pionieri”. Queste ed altre cose malinconiche ricordano oggi, ai passeggeri dai capelli più bianchi, i ragazzini di tante etnie, compresa la nostra, che sanno maneggiare abilmente quegli infernali oggetti che sono i cellulari.

 













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