«Con un respiro mettiamo l’arte al centro di tutto» 

Intervista ad Adam Budak. Questa mattina l’inaugurazione della nuova edizione della Biennale Gherdëina7 ad Ortisei, che resterà aperta fino al 20 ottobre. Parla il curatore: «Vogliamo generare un dialogo tra il vicino e il lontano, tra l’adesso e il dopo»


Daniela Mimmi


Bolzano. Si intitola “A breath? A name? The ways of world making“(Un respiro? Un nome? Come realizzare nuovi mondi) la nuova edizione della Biennale Gherdëina7 che sarà inaugurata oggi, sabato 8 agosto, alle ore 11 in via Rezia a Ortisei, per concludersi il 20 ottobre. Quest’anno la biennale d’arte contemporanea gardenese da Ortisei si spingerà fino a Selva. Saranno in tutto 26 e provenienti dai paesi più disparati, dalla Grecia al Canada, dagli Stati Uniti alla Lituania, dall’Estonia, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia, oltre che da Italia, Austria e Germania, gli artisti invitati da Adam Budak a esplorare il territorio, il paesaggio, la cultura, la storia, la popolazione e lo spazio pubblico, con un approfondimento e una riflessione artistica su tematiche sociali e socio-politiche di grande attualità. Questo è l’ultimo capitolo della trilogia ideata da Budak, iniziata con “from here to eternity” nel 2016 e “writing the mountain” nel 2018. Focus della Biennale di quest’anno saranno il significato e la consapevolezza della rilevanza socio-politica nel processo di creazione del mondo (“Worldmaking”), il fattore dinamico all‘interno di questo processo, ma anche la resilienza che cultura e natura garantiscono. Tre i capitoli sulla sociologia dell‘incontro e la strategia della pluralità che costituiranno il nucleo originario della realizzazione di nuovi mondi (“Ways of the worldmaking”): ecology of others, sul rilancio della relazionalità; In praise of hands, sull’arte del tatto e infine The cloud of possibles, sulla diffusione dell‘entusiasmo e sul potere della differenziazione. La Biennale Gherdëina 7 riempirà diversi spazi: una mostra principale nello spazio pubblico di Ortisei in Val Gardena e dei paesi circostanti, uno spazio espositivo nella sala Luis Trenker nel centro di Ortisei, appositamente adattato per la Biennale, a cui si aggiunge una serie di eventi collaterali che saranno messi a disposizione anche in streaming. Abbiamo intervistato il curatore, Adam Budak.

Partiamo dalla scelta del titolo di questa settima edizione, “– a breath? a name? – the ways of worldmaking”.

La prima parte del titolo: “- a breath? a name? –” proviene da una poesia intitolata “Tabernacle Window” del poeta nato in Romania e di lingua tedesca Paul Celan. Ho riletto questa poesia durante la pandemia, nel periodo che coincideva con i drammatici eventi di violenza a sfondo razziale avvenuti negli Stati Uniti. Entrambi i casi, collegati alla crisi respiratoria, hanno sottolineato l’importanza e la precarietà del respirare e dell’atto in sé che è l’essenza della vita. “I can’t breathe”, pronunciato senza speranza da George Floyd, è diventato un simbolo di resistenza; qui il respiro indica la morte e lo sfinimento, e rappresenta la chiusura del ciclo della vita. I recenti eventi hanno inoltre riacceso l’attenzione sulle politiche dell’identità, riaprendo la discussione sul significato di appartenenza e di identificazione come parametri di giudizio. Pertanto, la (corretta) “denominazione” come fattore di riconoscimento acquista un significato fondamentale. Entrambi, l’atto di respirare e l’atto di nominare, costituiscono un quadro di natura politica, gli elementi essenziali della “ecologia degli altri” e i modi di fare il mondo, o piuttosto i modi di rifare (la pluralità de)i mondi. Si tratta di questioni estremamente rilevanti per l’attuale condizione di divisione e disgregazione delle nostre società”.

Una delle promesse della settima edizione della Biennale Gherdëina è di considerare l’arte come importante mezzo di comunicazione sociale. Dopo la terribile esperienza del lockdown e della pandemia, l’arte deve dare un messaggio positivo. Quale sarà?

Considero l’arte un aspetto importante, se non cruciale, della nostra cultura e quindi del nostro quotidiano. La Biennale Gherdëina si è concentrata su progetti basati sulla comunità, progetti partecipativi e performativi, sviluppati in collaborazione con i protagonisti locali. Il coinvolgimento della comunità è sempre stato ricercato da me e dagli artisti internazionali invitati a partecipare, perché il compito della Biennale è quello di stabilire un rapporto con la tradizione locale e con le persone del luogo, sottolineando in questo senso la vocazione sociale dell’arte. Concentrandosi sulla presenza dell’arte nello spazio pubblico, la Biennale Gherdëina è sempre stata vissuta come la celebrazione di un luogo unico, della sua ricchezza culturale e della vivace tradizione locale. Le circostanze della prossima edizione sono davvero molto impegnative. La crisi pandemica ci ha resi consapevoli della vulnerabilità dell’uomo e della natura. La resilienza diventa un’urgenza fondamentale; le nozioni di responsabilità condivisa e umiltà come moderatori etici delle relazioni interpersonali acquisiscono un’importanza particolare nel tentativo di ridefinire i campi di azioni della reattività e della cura. La Biennale Gherdëina 7 rifletterà questi temi come sfide nei processi attivi della ricreazione del mondo. Come tale, mostrerà un approccio positivo e celebrerà l’etica dell’affermazione. Con le parole della filosofa Rosi Braidotti: “Dobbiamo prendere in prestito l’energia dal futuro per rovesciare le condizioni del presente. Si chiama amore per il mondo. (...) Immagina ciò che non hai ancora; anticipa ciò che vogliamo diventare. Dobbiamo dare alle persone il potere di desiderare, volere, aspirare a un mondo diverso, per estrarre dalla miseria del presente, relazioni e pratiche gioiose, positive, affermative. L’etica guiderà le politiche affermative”. Inoltre, la Biennale concepisce l’arte come un processo terapeutico e riconosce i poteri curativi e trasformativi dell’arte. Molti progetti artistici, presentati dagli artisti prima della diffusione del Coronavirus, si sono evoluti durante la pandemia e sono stati rimodellati sotto la pressione di una nuova condizione sociale, acquisendo nuovi significati e contesti. Alcuni sono apparsi profetici, proclamando già in epoca pre-pandemica un urgente bisogno di ripensare il nostro rapporto con la natura e il clima, così come il rapporto con l’Altro. La settima edizione della Biennale propone una consapevolezza dell’ecologia come concetto espanso che racchiude un nuovo tipo di intimità critica come modello comportamentale di convivenza responsabile con il nostro ambiente naturale e con gli altri esseri umani”.

Quindi per lei è il posto ideale per parlare di natura ed ecologia?

Con la Biennale Gherdëina 7 torno in Trentino-Alto Adige, dove oltre 10 anni fa ho co-curato Manifesta 7. Mentre per Manifesta 7, il principio Speranza ha costituito la cornice per progetti artistici che negoziavano uno spazio tra la tradizione locale e globale, qui in Val Gardena, per la Biennale Gherdëina 7, la riflessione sul vernacolare e su un momento particolare della nostra vita sociale, politica e culturale è condotta secondo il principio della Responsabilità. Tale principio stabilisce le misure per le nostre vite e comportamenti come homo faber - fabbricanti del mondo, e aumenta la consapevolezza del nostro posto qui e ora, in mezzo agli altri, a ciò che ci circonda e verso il futuro.

Una delle caratteristiche della Bienale Gherdëina è di avere un respiro internazionale, ma essere anche radicato al territorio, territorio in cui gioca un ruolo importante anche la lingua ladina. Lei come è riuscito a combinare tradizione e visione contemporanea della società?

Sì, in effetti, il ruolo ambizioso della Biennale è quello di generare un dialogo (o meglio un polilogo) tra il vicino e il lontano, il qui e là, l’adesso e il dopo, il nostro e il vostro. Le recenti edizioni della Biennale si basavano su un graduale avvicinamento che mirava a ricontestualizzare il vernacolare attraverso lo sguardo degli artisti provenienti da vari angoli del mondo. La Biennale è incentrata sulle opere nello spazio pubblico e può contare in larga misura su nuove produzioni sviluppate in situ che si rapportano al contesto locale. Il coinvolgimento degli artisti con i luoghi della Biennale è fondamentale ed è sempre basato su una profonda conoscenza e ricerca che dimostra la curiosità e la passione degli artisti per questi spazi. La ricca tradizione locale della Val Gardena, come ad esempio l’arte della scultura in legno e l’unicità della lingua ladina, è potente e stimolante ed è materiale prezioso per progetti artistici site-specific. La tradizione e il processo di costante rilettura della tradizione ci aiutano a capire da dove veniamo e ci insegnano ad affrontare il presente e il futuro. Gli artisti coinvolti nella Biennale sono interessati alle questioni sociopolitiche, culturali e comunitarie e ci forniscono una visione diversa, spesso nuova, di ciò che sembra essere familiare e che spesso diamo per scontato. La lingua gioca ancora una volta un ruolo significativo. L’identità visiva, infatti, si basa sulle martellate dell’artista italiano Marcello Maloberti, brevi slogan in quattro lingue, tra cui il ladino, che collegano poesia e politica e che si ritroveranno in tutta la Val Gardena. Un altro degli artisti della Biennale di quest’anno è Franz Josef Noflaner, un celebre artista e poeta della Val Gardena il cui verso “Die Sonne scheint, so lang die Sehnsucht weint” adornerà la Luminaria dell’artista italiana Marinella Senatore.

La Biennale è suddivisa in tre capitoli. Su quali basi ha creato le tre sezioni?

Questo è l’ultimo capitolo di una trilogia sulla politica dell’appartenenza. I temi affrontati, il significato del patrimonio culturale, la ricerca di un posizionamento strategico nella storia, l’importanza della comunità, l’onnipresenza della natura e della sua “industria”, verranno contestualizzati in un quadro sociopolitico che non trascurerà gli aspetti più poetici, spirituali ed esistenziali.

E come ha risolto la dicotomia tra natura e cultura?

Sulla scia di un’innovativa opera antropologica di Philippe Descola, la Biennale mette in discussione la divisione tra natura e cultura che è stata una caratteristica fondamentale del pensiero occidentale dalla fine del XIX secolo. Descola cerca di abbattere il divario tra natura e cultura, sostenendo un’antropologia liberata dal suo antropocentrismo e da questa concezione dualistica di natura e cultura come regni di fenomeni distinti. Descola immagina una visione del mondo radicalmente nuova, in cui esseri e oggetti, umani e non umani vengono analizzati sulla base delle relazioni che intercorrono tra loro. Dopo Descola, la Biennale sostiene una “ecologia delle relazioni” che mira a ricomporre natura e società, umani e non umani, individui e collettivi, in un nuovo assemblaggio in cui non si presenterebbero più come divisi tra sostanze, processi e rappresentazioni, ma come espressione istituita di relazione tra entità multiple il cui status ontologico e capacità di azione variano a seconda delle posizioni che occupano l’una rispetto all’altra. Il progetto collaborativo dell’artista tedesco Antje Majewski “Sculpture Forest Sanctuary” è uno dei progetti più significativi in questo senso. Simile alle Foreste Sacre nell’Africa occidentale o nella Cina meridionale - luoghi spirituali in cui può svolgersi la comunione tra esseri viventi e spirituali, “Sculpture Forest Sanctuary” sarà un luogo nella foresta che diventerà una casa per le sculture donate da alcuni artisti. Le sculture, lasciate nel bosco, saranno realizzate con materiali che possono essere trovati nel bosco stesso e che con il tempo si disgregheranno fino a diventare parte dell’ambiente. L’obiettivo degli artisti è quello di creare boschi che non saranno di proprietà di alcuna persona giuridica, tantomeno loro. Dal momento che ciò non è legalmente possibile in Europa, la proposta è stata considerata come il primo passo per istituire il Santuario della Foresta delle Sculture. Per la loro donazione, gli artisti riceveranno in cambio dal proprietario del bosco - il comune o il proprietario privato – la parola che la foresta rimarrà intaccata dagli esseri umani per 1.000 anni (o, se possibile, per sempre ). L’unica eccezione è il mantenimento di un percorso che conduce alle sculture. Il proprietario della foresta in cambio avrà un giardino di sculture che può essere mostrato ai visitatori. Il Santuario potrà anche essere ampliato con nuove donazioni o acquisizioni di sculture di altri artisti, preferibilmente artisti locali, a condizione che queste sculture siano costituite da materiali che possono essere trovati nel bosco. “Sculpture Forest Sanctuary” diventerà un piccolo campo di sperimentazione in cui è possibile studiare l’adattamento ai cambiamenti climatici. Quali piante, quali insetti svaniranno, quali sorgeranno, quali sono i più resistenti? Darà anche spazio a una moltitudine di piante, animali, microbi, funghi e altri esseri viventi. Un’altra installazione site specific, “Mirror Tree” dell’artista svedese Henrik Håkansson, sarà una rappresentazione poetica di una simbiosi natura/cultura. Questo atto di riorientamento percettivo, unendo la crescita organica con la progettazione architettonica, si avvicina alla maglia del binomio natura/cultura e apre a nuove implicazioni per l’esperienza soggettiva, secondo la quale ci troviamo intrappolati in mondi sempre più multipli, quelli della biotecnologia, dei media, della farmacologia, della legge e dell’economia, così come in nature non umane. La natura, in questa luce, propone un luogo di inaspettata estraneità e di divenire, che ha sempre costituito il suo essere in continua evoluzione.

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