DELIRIO ALCOLICO  SU UN TRENO  MOSCOVITA 

Un amico mi ha regalato “Mosca-Petuškì: poema ferroviario”, romanzo dello scrittore sovietico Venedikt Vasil'evič Erofeev, circolato in Urss per la prima volta nei primi anni ’70 come samizdat, cioè...



Un amico mi ha regalato “Mosca-Petuškì: poema ferroviario”, romanzo dello scrittore sovietico Venedikt Vasil'evič Erofeev, circolato in Urss per la prima volta nei primi anni ’70 come samizdat, cioè come pubblicazione clandestina (ciclostilata o ricopiata a mano) e pubblicato nella sua forma definitiva dal 1989, durante l’era Gorbaciov.

In Italia, come in altri paesi, ne erano già uscite diverse versioni, ma questa in mio possesso, edita da Quodlibet nel 2021 porta la traduzione, e anche una brillante introduzione, di Paolo Nori.

Che dire, caro amico mio. Grazie per questo delirio alcolico.

L’autore, nel suo genere, può essere avvicinato a Charles Bukowski, altro campione dell’ubriachezza letteraria, ma americano, e famosissimo, il che mi porta a dire: ecco cosa significa essere nati nel tempo e nel luogo sbagliati.

In Urss ubriachezza, assenteismo cronico e altre “colpe” di cui si macchia il protagonista di questo romanzo, semplicemente non potevano esistere, e quindi un lavoro del genere non poteva che essere destinato alla censura.

Pare che poi Erofeen abbia scritto un altro libro, e che lo abbia dimenticato in giro quando era sbronzo. Quindi, di lui, morto a Mosca nel 1990, è rimasto il “poema ferroviario”. In compenso, ci dice Nori, lo avevano letto tutti, perché un romanzo proibito in Unione Sovietica nessuno se lo lasciava scappare.

Ridotto all’osso, il libro è il lungo monologo di un alcolista che, fra un sorso e l’altro, racconta la sua vita, incalzato da angeli che di volta in volta gli danno consigli più o meno opportuni.

Da Mosca l’uomo si dirige in treno verso Petuškì, dove ha un figlio, ma anche una giovane amante.

Nel frattempo, dalle conversazioni con gli altri passeggeri, scopriamo che, da responsabile della sua Unità di produzione, ad appena un mese dalla promozione, è stato demansionato, a causa di una statistica sui consumi di alcol dei membri della sua squadra che aveva compilato per goliardia, finita nelle mani sbagliate.

Il tono è amaro, ironico, veemente, autocompiaciuto, estatico e sboccato. Ciò che si legge in filigrana è quello che si vede spesso nelle dipendenze: tristezza abissale, accoppiata a un sentimentalismo ricattatorio.

Formidabili, e terrificanti, le descrizioni dei cocktail dell’era sovietica, a base di birra, alcool denaturato, profumi di vario genere, persino lacche per legno e deodorante per i piedi.

A guardar bene, però, oltre alle bevute iperboliche emerge anche qualcos’altro: la verità di un paese dove l’inganno era la regola numero uno e l’imitazione – anche degli alcolici “capitalisti” – quella numero due.

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