il libro

Il dolore e la felicità lassù. In cima al Latemar

La nuova opera di Matteo Righetto, «Apri gli occhi», si legge d’un fiato. E commuove


Paolo Mantovan


Non è facile trovare un libro che si faccia leggere tutto d’un fiato. Significa che ci finite dentro, cuore e cervello. No. Non è facile. E che poi sia un romanzo scritto da un italiano è ancora più raro. «Apri gli occhi», di Matteo Righetto, è un libro così che si legge tutto d’un fiato. È un viaggio che non potete interrompere. Perché vi conduce, pagina dopo pagina, in un dramma che sentite possibile, che vi riguarda da vicino, eppure vi avvince, volete sapere se c’è una mèta in fondo al viaggio.

«Apri gli occhi» (Tea editrice, 158 pagine, 13 euro) è un tesoro di emozioni e di commozione. Una salita verso la cima dello Schenon, sul Latemar, che Luigi e Francesca decidono di fare in una giornata di giugno. Luigi e Francesca erano stati amici, fidanzati, marito e moglie. Ora non lo sono più ma devono assolutamente compiere quel viaggio. Dove la famiglia è il cuore, dove la montagna è la grande scenografia.

Matteo Righetto, dopo «La pelle dell’orso», si conferma “scrittore di montagna”, perché un Latemar così vivo e presente, tra il bosco come anticamera del raccoglimento interiore e la roccia e l’alta quota come “metafora perfetta di apertura”, riesce a tenerci sempre all’erta, proprio come fa un buon escursionista o un arrampicatore: sempre in tensione, preparato, con l’occhio che guarda molto lontano ma anche vicino, dentro il dettaglio. E la montagna in questo libro di Righetto non ha più il sapore favolistico de «La pelle dell’orso», di un’epoca lontana, fra leggende e pini. Qui la montagna ci richiama al senso delle cose, della serenità, della ricostruzione delle nostre vite, del luogo in cui possiamo incorniciare attimi di felicità senza sapere se mai torneranno così vivi e potenti. E ancor di più se su questa montagna, come accade nel libro, quella felicità l’abbiamo vissuta, almeno una volta nella vita, e siamo certi che non potrà mai più ritornare.

È un libro commovente. Nelle ultime pagine ti prende allo stomaco, non ti concede tregua. Eppure Righetto, nello strazio della vicenda centrale, attorno alla quale ruota tutto il libro, è capace di evitare toni da melodramma pur offrendo un’intensità dei sentimenti di disperazione e di sconforto. Riesce a regalarti un sorriso, ti ridona una piccola speranza, ti aiuta a rialzarti in piedi, a guardare oltre, a vedere il sole che illumina questa straordinaria montagna. Il Latemar.

Il Latemar, sì. Certamente uno dei gruppi dolomitici più misteriosi. Forse anche dei meno conosciuti e proprio per questo uno dei più affascinanti. Un gigante (così lo descrive, quasi di sfuggita, anche Righetto) che sembra quasi un essere vivente con i suoi giochi di rocce, visto che è composto sia di roccia dolomitica che di relitti di antica attività vulcanica. In questo grande scenario, dunque, va in scena un dramma gigantesco. E il libro si muove anche sul contrappunto fra città (Milano) e montagna (Latemar). Dove la città vive sulle note del tempo che scappa, della routine, delle occasioni mancate, dello smartphone e dell’ufficio, degli intoppi e degli incidenti, mentre la montagna è emozione, ricordo, profumi, fatica, conquista, volo, sogni. «Penserai che in tanti anni nella tua vita tutto è cambiato, ma quella montagna è rimasta sempre uguale a se stessa. Perché le montagne non cambiano, le montagne non tradiscono» scrive Righetto.

Ed ecco il vero motore di tutto il libro. Le cose che cambiano un po’ alla volta, quasi senza brusche interruzioni per poi presentarti il conto con l’arrivo inaspettato del dolore; l’amore mancato e rapito da una vita che senza darti alcun avviso si piega da un’altra parte e ti lascia solo. Ed è allora che riappare la montagna. Per offrirti un’ultima chance.

Matteo Righetto è riuscito a costruire una storia dal sapore amaro e ricca di umanità, con la forza e la freschezza di un linguaggio giovane e insieme maturo, e a condensarla in 158 pagine che le imprimono anche quella velocità che serve per immergerci in un sogno ma anche per uscire da un incubo. È rapida e intensa. È figlia anche di questa nostra età. Che chiede persino a un libro di tenere dei ritmi quasi frenetici. Ma Righetto ci riesce senza farcelo capire troppo. Anche questo è un pregio.













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