Il libro

La montagna non piange e non ride 

Nel suo nuovo libro l'alpinista veneziano Marco Berti smonta «la retorica del sentimento nei confronti della montagna, e dei termini usati». «Non volevo parlare di tecniche, di metodi o di gradi. Ma di un viaggio che altri potrebbero fare sul mare, o altrove»


Paoo Campostrini


Bolzano. Marco Berti dice che la montagna non piange e non ride. Berti è un alpinista. È salito e sceso dalle vette dell’Himalaya, ha fatto imprese, ventisette spedizioni tra i seimila e gli ottomila.

Vuole dire questo: se qualcuno ci muore, lassù, la montagna non c’entra. Se qualcun altro tocca la cima, la montagna non è felice per lui. «Siamo noi umani - spiega - che ci vediamo tutto, se la amiamo. Che cerchiamo lassù delle risposte che non troviamo a casa».

Insomma, è chi ci sale che la ammanta di emozioni, la vede piangere e ridere. Dunque, insiste: “più della cima conta il viaggio”.

Lo spazio della camminata e della salita. La paura delle difficoltà, gli occhi persi dei compagni nella tormenta, gli sguardi dall’alto verso il basso come se la montagna fosse una mente che si apre. Marco Berti ha scritto un altro libro, dopo i suoi tanti. Si intitola, appunto “La montagna non ride e non piange” (Solferino).

Lei è di Venezia. Perché la montagna e non il mare?

“A Venezia le montagne, in certe giornate, sembrano così vicine da toccarle. E poi, attenzione, quella di Venezia è la più antica sezione del Cai italiana, dopo Torino e Schio: 1891. E poi perchè sulle Dolomiti andavano da sempre i veneziani. All’inizio quelli che se lo potevano permettere”.

Titolo secco quello del suo libro.

“Ero abbastanza stanco di tutta la retorica del sentimento nei confronti della montagna. E dei termini usati”.

Ad esempio?

“Beh: montagna assassina, per dirne uno. L’avevo detta, la frase nel titolo, tanti anni fa ad un ragazzo che stava iniziando a scalare. La montagna non è un luogo né buono né cattivo. Occorre accettare la semplicità del rapporto con lei”.

E allora perché ci sale?

“Io, come tanti, ci cerchiamo quello che non abbiamo”.

E come lo si trova?

“Nel viaggio. Lo troviamo in noi. I luoghi sono semplicemente un abbrivio rispetto a come siamo, al nostro grado di semplicità. C’è chi cerca questo percorso, la montagna. Altri lo fanno col mare. Oppure con altri spazi. Ho amici che mi dicono: non potrei vivere lontano da Milano”.

E invece lei?

“Dopo un giorno mi viene da scappare”.

Dove trova la situazione più capace di aprire all’introspezione?

“Nelle difficoltà. È la severità di certi passaggi che spinge a riflettere. È lì che non si può più mentire, che ci si ritrova, se mai si avesse il coraggio di farla questa introspezione. Si possono avere delle sorprese”.

È l’impresa, la parte sportiva e di sfida, una delle componenti più gratificanti?

“Da ragazzo magari sì. Mi riempivo di libri e esperienze sui gradi di difficoltà, di metodo americano o francese. Poi, con gli anni, vedi le cose da altri punti di vista”.

Ad esempio?

“Quando arrampichi pensi meno al grado di difficoltà, alla tecnica e ai precedenti. Pensi a risolvere metro dopo metro le difficoltà. Ci si guarda più dentro”.

Dove va di solito adesso?

“Devo confessare che all’inizio avevo iniziato a frequentare Bolzano. A Firmiano, prima che Messner facesse il suo museo, c’ erano delle belle rocce. Una palestra. Era divisa tra tedeschi e italiani. Una volta ho sconfinato: e lei, che ci fa qui? Mi hanno detto. Ma era tutto bello”.

E ultimamente?

“Mi capita di voler tornare a salire montagne che ho già conosciuto. Succede che magari possa ritrovare un mio chiodo lasciato lì anni prima. Mi dicono che accade anche ad altri luoghi e a tante persone. Con gli anni ci si affeziona. Più che altro a noi come eravamo allora”.

Nel suo libro non cita la montagna che è dentro il racconto.

“Perché volevo che in tanti si riconoscessero nel percorso mentale e interiore più che in uno fisico”.

La dedica è anche per un “Jacopus”. Chi è?

“Un mio compagno di cordata, un amico fratero. Tra l’altro, un bolzanino, Roberto Iacopelli. La montagna, anche se non piange ne ride, è un percorso fondamentale di amicizia, di relazione, di scoperta degli altri”.

Sembra che lei abbia scritto un diario di bordo applicabile a tanti terreni, non solo alla montagna. È così?

“Bene. Era quello che volevo. Per dirne un’altra, il libro non è legato e non è percorso dal lessico alpinistico. Non volevo parlare di tecniche, di metodi o di gradi. Ma di un viaggio che altri potrebbero fare sul mare, o altrove”.

Quando dice che non conta tanto la cima ma il viaggio sembra riecheggiare parabole buddiste.

“Evidentemente non sono stato dieci anni in Nepal invano. Ma non sono buddista”.

Il bello della montagna dunque?

“Che ci vai su per vedere quello che ci sta dietro. Io ho preso infinite “ombre” nelle osterie con Hugo Pratt, l’inventore di Corto Maltese. I veneziani sono evidentemente così: cercano altro e l’altrove. Probabilmente anche i primi veneziani che fondarono la sezione Cai e vedevano le montagne da lontano avranno pensato di andarci per vedere che cosa ci fosse oltre…”.

 













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