Memoria

Michela Ponzani, "processo" alla Resistenza

Oggi (11 gennaio) alle 17.30 al Centro Trevi la storica presenta il suo libro sui procedimenti giudiziari contro i partigiani dopo la seconda guerra mondiale. «Un tentativo di delegittimazione della Repubblica nata dalla Liberazione e di autoassoluzione per i crimini fascisti»


Paolo Campostrini


BOLZANO. Nell'Italia del dopoguerra, la guerra era ancora lì, dentro il cuore del Paese. A tracciare solchi e a innalzare barriere. E non se ne andava. Nel mezzo di queste ferite aperte, partigiani e repubblichini finivano spesso davanti ai giudici: chi aveva sparato a chi e perché? Dove serviva segnare il confine tra legittimità e arbitrio? Che italiani erano stati, da assolvere o da condannare? "Achtung Banditen" scrivevano i tedeschi sui cartelli nelle zone dove si aggiravano le formazioni bianche o rosse, della Garibaldi o degli azionisti. "E spesso i tribunali li hanno trattati ancora come tali" dice Michela Ponzani. Lei, docente di storia contemporanea all'università di Tor Vergata, a Roma, ricercatrice, componente, tra l'altro, della commissione storica bilaterale italo-tedesca, ha messo gli occhi su archivi e documenti, sentenze e testimonianze tra il 1945 e i primi anni Sessanta. Ed è lì, in quelle tracce lasciate dai tribunali della Repubblica non ancora nata o in fasce che emerge il "Processo alla Resistenza". È questo anche il titolo del suo libro, uscito per Einaudi e che presenterà tra pochi giorni a Bolzano, giovedì 11 gennaio alle 17.30 al Centro Trevi con il supporto dell'Anpi.

Michela Ponzani, che Italia viene fuori in questo rapporto tra italiani che giudicano altri italiani?

"Emerge un Paese affatto incline a giudicare la Resistenza come atto fondativo della nascita della nuova Italia".

E i magistrati che giudicano i resistenti?

"Hanno quasi sempre lo stesso approccio. Che si coglie anche nella stampa popolare negli anni successivi al 1945".

Quale stampa?

"I maggiori quotidiani. Ma soprattutto i rotocalchi, i settimanali, le riviste popolari che allora avevano una fortissima presa sull'opinione pubblica".

Che c'è lì dentro, in quelle pagine?

"Una visione da una parte edulcorata, dall'altra incline a guardare al ruolo dell'Italia nella guerra non come protagonista del conflitto ma come vittima".

E i repubblichini, al pari dei tedeschi autori di sanguinose repressioni?

"La visione che giudici e opinione pubblica nel suo complesso avvaloravano era legata al loro dirsi obbedienti agli ordini. E dunque soldati a tutti gli effetti".

Come si guardava quindi alla liberazione del Paese?

"Una visione abbastanza diffusa era quella che coglieva una certa inutilità delle azioni partigiane. Dicendo: alla fine ci hanno liberato gli alleati no?".

Dunque la stessa lotta di liberazione veniva schiacciata dentro una sostanziale banalizzazione?

È stato così. Tanto che nei dibattimenti, soprattutto durante i primi anni del dopoguerra, molti partigiani venivano tacciati di vigliaccheria per non essersi consegnati ai tedeschi dopo le loro azioni.

Per quale ragione?

Perché così avrebbero evitato le rappresaglie. Impedendosi così di considerare che era la rappresaglia stessa illegittima e non l'azione di contrasto agli occupanti.

E dove finiscono, in questa percezione del recente passato, gli italiani fino a poco prima in guerra?

"Dentro una bolla. In cui sfumano le responsabilità sia collettive che personali di aver innescato e poi partecipato al conflitto. In questa bolla sfumano anche le macchie dei crimini di guerra. Quelli vengono attribuiti sempre e solo ai tedeschi".

Via Rasella è uno dei primi casi presi in esame dai tribunali no?

"In quei fascicoli emergono tutti gli equivoci che accompagneranno successivamente altri processi. Via Rasella tiene insieme molti elementi della questione: l'attentato partigiano, il non consegnarsi degli autori che vengono così visti come i responsabili delle Fosse Ardeatine, il ruolo dei Gap a Roma. Anche se poi risultò chiaro che non vi fu alcun invito a consegnarsi da parte dei tedeschi, che avevano già deciso la decimazione".

Ma che accadeva invece sul fronte del Partito comunista?

"Beh, da un lato proprio la componente comunista delle unità partigiane, i garibaldini, furono quelli più posti nel mirino della magistratura. In quanto comunisti, appunto. Era naturalmente in atto anche un riposizionamento generale delle alleanze in quel frangente...".

Intende il ruolo della nuova Italia dentro la guerra fredda e nella contrapposizione dei due blocchi in Europa?

"Certo. E dunque l'atteggiamento verso i comunisti venne ancor più caratterizzato alla luce di un continuo distanziamento dalle loro istanze da parte degli organi dello Stato".

Ma il Pci, invece? Anche a proposito delle azioni come via Rasella?

Ecco, qui si colgono una serie di contraddizioni nel partito. Il Pci con i suoi organismi non si spende molto nella difesa dei gappisti. Che a loro volta chiedono ragione di questo atteggiamento. Era evidente che vi fosse in atto un ulteriore riposizionamento dello stesso partito alla luce degli equilibri che si stavano definendo.

Quindi il possibile impegno antifascista nella nuova Repubblica veniva banalizzato dentro un inevitabile, allora, anticomunismo?

"Era anche questo atteggiamento responsabile della bolla che si stava costruendo intorno alle responsabilità italiane, sia durante il fascismo che durante la Rsi, derubricate nella generica "obbedienza" agli ordini gerarchici".

Da qui anche la mancata equiparazione dei partigiani ai combattenti delle altre forze armate?

"È così. Tanto che molti partigiani che vengono smobilitati e che consegnano le armi agli alleati dopo il 25 aprile del '45, vengono poco dopo messi sotto processo. Alcuni dai tribunali alleati ma la gran parte da quelli italiani. Ci sono casi dolorosi di giovani partigiani che tornano nelle loro città e si attendono riconoscenza e invece vengono arrestati. Sono spesso senza lavoro e passano anni difficili".

Ci sono fasi diversificate in questo percorso dei processi?

"Dopo le prime udienze nel clima che si è raccontato, c'è poi un ulteriore momento, successivo all'attentato a Togliatti e alle manifestazioni di piazza che avvennero subito dopo, che si mettono in piedi processi su larga scala ad ex partigiani. Puntando proprio sulla componente comunista che si ritiene possibile fiancheggiatrice dei disordini".

Fino a che punto?

"Anche con la riesumazione di casi di violenza avvenuti nel cosiddetto "triangolo rosso".

Quello delle vendette antifasciste nell'immediatezza della fine della guerra da parte dei partigiani?

"Sì, ma che portò allora, proprio per via della percezione collettiva di quei fatti, anche alla condanna di innocenti. Come nel caso di Germano Nicolini, il partigiano accusato dell'esecuzione del parroco don Pessina, poi risultato innocente, non senza aver scontato un lungo periodo in carcerazione".

Non c'è invece il rischio, oggi, della mitizzazione del ruolo della Resistenza?

"C'è stata la possibilità di guardare ai fatti, invece, nella giusta luce. Come pure si è giunti, lodevolmente, a considerare atto resistenziale, il no di migliaia di ufficiali e soldati fatti prigionieri dai tedeschi all'arruolamento nella Rsi".













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