«Sogno di festeggiare una medaglia a Zagabria da coach della Croazia» 

Serie A1. Parla l’ormai ex coach del Bolzano, con cui ha vinto quattro trofei in un anno e mezzo


GABRIEL MARCIANO


Bolzano. Da pochi giorni Boris Dvorsek, allenatore croato che ha guidato il Bolzano a quattro titoli della pallamano italiana nell’ultimo anno e mezzo, ha firmato un contratto (2 anni + opzione sui 2 successivi) con il club campione della Finlandia. Alla vigilia di questo cambio di panchina, si era reso disponibile per un’intervista – in inglese, lingua che parla quasi perfettamente – che ripercorresse la sua vita nel mondo della pallamano, dagli inizi in quel di Zagabria, dov’è nato e cresciuto, fino a oggi. Una vita all’insegna della determinazione, che lo porterà senza ombra di dubbio a inseguire con ambizione ogni traguardo che si prefiggerà di raggiungere. Sperando che possa tornare, in un futuro non troppo lontano, a porsi degli obiettivi anche qui in Alto Adige.

Coach Dvorsek, qual è stato il suo primo contatto con la pallamano?

«In quinta elementare, quando ho cambiato scuola. Nel nuovo istituto si facevano solo tre sport. Il primo era la pallavolo, ma la rete era troppo alta per e quindi non l’ho scelta. Il secondo era il ping pong, ma anche il tavolo era troppo alto per me (ride, ndr). E il terzo era la pallamano: ho scelto quella».

Poi per alcuni anni ha giocato in alcune squadre croate, ma ha smesso presto…

«Ho giocato fino a 21 anni, sempre a Zagabria a parte gli ultimi due, che ho trascorso nell’Handball Club Dubrava, nella prima lega croata».

Perché ha smesso così presto?

«Perché non avevo chances di giocare al massimo livello: ero troppo basso. Non avevo futuro, ma a Zagabria mi hanno detto “Ok, non puoi giocare nella prima squadra, ma vogliamo che rimani come allenatore. Puoi diventare un buon coach, pensaci un paio di settimane e poi facci sapere la tua decisione”. Io così ho fatto e ho iniziato il lavoro da allenatore, a 19 anni, seppur non avrei mai pensato di diventarlo professionalmente. Anche perché avevo iniziato da poco a studiare diritto. Non avevo il tempo per fare tutto: studiavo, allenavo i bambini a Zagabria e giocavo, con gli orari degli allenamenti che quasi sempre si sovrapponevano. Quindi ho deciso di smettere di giocare e dedicarmi ad allenare e a studiare legge».

Si è anche laureato, poi, in giurisprudenza?

«No. Dopo due anni con la prima generazione di ragazzi che ho allenato, ho vinto il titolo nazionale giovanile. E ho vinto questo campionato sette volte di fila, nelle categorie Under 18 e Under 20. Dopo due vittorie siamo andati in Svezia alla Partille Cup, il più importante torneo giovanile al mondo, e l’abbiamo vinta. In quel momento ho deciso che sarei diventato un allenatore e ho cambiato facoltà, andando a studiare all’università dello sport, dove mi sono laureato con la massima qualifica da allenatore. Così ho iniziato a focalizzarmi su quello».

È rimasto a lungo ad allenare a Zagabria.

«Sì, e per due anni la federazione croata mi ha scelto come miglior giovane coach».

Tant’è che in quegli anni ha allenato anche le Nazionali giovanili della Croazia.

«Sì, diverse categorie, Under 16, Under 18 e Under 21, sia della Nazionale maschile che di quella femminile».

È più difficile allenare i ragazzi o le ragazze?

«Dipende. La metodologia di allenamento è la stessa, ma alcune cose sono diverse. Preferisco gli uomini. Però anche con le donne ho fatto una bella esperienza: sono stato nello staff della Nazionale femminile per sette anni e con loro sono stato ai Giochi Olimpici del 2012 a Londra, dove ci siamo classificati sesti. Dopo le Olimpiadi sono tornato ad allenare gli uomini».

Perché preferisce gli uomini?

«A volte è più facile. Poi c’è più concorrenza, il gioco è più veloce e mi interessa di più. Mi sembra anche più popolare. Parlo della Croazia, perché al di fuori ho allenato solo squadre maschili, quindi non posso fare paragoni. Ma sono interessato lo stesso ad allenare anche le donne, perché come coach nella pallamano femminile ho passato sette begli anni».

Dopo le esperienze nei club croati e con la Nazionale, nel 2014/15 è andato ad allenare in Bosnia, giusto?

«Credo che fosse la stagione dopo: 2015/16. Perché nel 2013/14 allenavo la prima squadra di Zagabria, con cui ho trascorso il periodo più bello della mia carriera, vincendo due campionati, due coppe di Croazia e due Seha League (il campionato dei Paesi dell’ex Jugoslavia – Seha sta per South East Handball Association ndr)… Comunque in Bosnia ci sono rimasto solo sei mesi, perché c’erano problemi economici. Ho ricevuto solo tre stipendi e non potevo continuare l’esperienza quindi sono tornato a casa».

Poi è venuto ad Appiano per un anno e quindi è andato in Finlandia. Era molto diversa la vita lì?

«Totalmente. La vita, la pallamano, il modo di pensare della gente, tutto era diverso. Ma ero già stato in Scandinavia a fare dei tornei e la cosa mi ha aiutato. I primi mesi è stato difficile, perché mi trovavo in un mondo completamente diverso. Dopo un mese però ho iniziato ad apprezzarlo e a vivere con rilassatezza. Tutto era molto organizzato e preciso, ogni parte della vita lì è perfettamente organizzata».

Poi è arrivato qui a Bolzano: com’è successo?

«Si era creato un buon rapporto con Stefano Podini e Hansi Dalvai, quando allenavo ad Appiano. Due anni fa, quando volevano cambiare coach, Sporcic mi ha contattato e ho raggiunto in fretta un accordo con la società. Cercavo una squadra con cui poter vincere trofei e ho riconosciuto queste caratteristiche nel Bolzano. Avevamo le stesse ambizioni: io, Podini e l’intera società avevamo la stessa fame di vittorie. Per farti capire: in Finlandia sono andato ad allenare una squadra che da vent’anni, dal 1997 al 2017, non aveva vinto nemmeno una partita nella massima serie, facendo su e giù dall’A2 per quattro volte, ma senza mai un successo in A1. Ci sono tornati l’anno in cui sono arrivato e abbiamo ottenuto 8 vittorie e un pareggio. È stato fantastico: il miglior risultato della storia per quel club. Volevano che rimanessi, ma lì non trovavo ambizioni e quindi ho accettato volentieri l’offerta di Podini».

In questo anno e mezzo ha vinto quattro trofei, ma ora è tutto fermo a causa del virus. Che ambizioni ha ora?

«In questo momento credo che l’unica cosa a cui si debba pensare sia essere pazienti per uscire da questa situazione. La partita più importante è quella contro il Coronavirus. Sarei molto felice se continuassimo con il campionato, perché significherebbe che in quel momento l’Italia avrà vinto contro il virus. Ma non credo che dovremmo pensare al campionato in questo momento. La cosa più importante è la vita delle persone, in tutto il mondo. Dobbiamo essere pazienti. Finora la stagione, però, è andata come speravo. Lo scorso agosto avevo in mente come saremmo arrivati a vincere Supercoppa e Coppa. Abbiamo perso una partita in più di quel che mi aspettassi - non pensavo di perdere in casa con Sassari - ma poi è andata come avevo previsto: abbiamo giocato una delle migliori partite della prima metà di stagione in Supercoppa contro il Pressano e poi abbiamo vinto sette partite in campionato e tre in Coppa, portandola a casa. Ora non dobbiamo fermarci: non possiamo allenarci fuori, ma ogni settimana dico ai giocatori degli esercizi da fare a casa. Non è la stessa cosa, ma si mantengono in forma e intanto aspettiamo. La cosa più importante ora, ripeto, è sconfiggere il Coronavirus»

È una persona molto determinata. Come ha costruito la sua leadership?

«Penso che sia partito tutto dall’inizio: sia i miei genitori che alcuni amici mi dicevano che avevo il carattere del leader. Quando sono stato nell’esercito, ho finito l’anno di leva obbligatoria uscendo dal corso per ufficiali come comandante. Credo sia il mio carattere: sono dello scorpione. In più mia moglie è una life coach, quindi mi aiuta anche lei. In generale credo di avere la visione di come raggiungere gli obiettivi. In agosto avevo idea di come avremmo conquistato la coppa e so che quando abbiamo perso a Conversano e a Siena qualcuno nella società non era contento, ma ho continuato per la mia strada e l’abbiamo portata a casa. I risultati dimostrano che le decisioni sono state quelle giuste. Sbaglio decisioni nella vita privata magari (ride, ndr), ma nello sport sta funzionando. Per essere leader devi avere visione. Non urlo mai coi giocatori, tranne quando serve. Sorrido e scambio volentieri battute con loro, ma quando c’è da lavorare, si lavora duro. E devo ringraziarli, perché mi hanno seguito: la fiducia reciproca ci ha portato a ottenere i risultati. Non m’importa se ai giocatori piaccio o meno, m’interessa che mi rispettino, e lo vedo nei loro occhi. Così, anch’io rispetto loro».

Visto che per questa stagione è difficile porne, che obiettivi ha per gli anni prossimi?

«Ciò che mi importa nel mio futuro prossimo è la connessione con Bolzano, per costruire un sistema solido come quello di quest’anno. Mi piacciono molto sia la città che la società e spero di lottare per altri scudetti. Per il futuro lontano, invece, un giorno vorrei essere allenatore in Bundesliga (il campionato tedesco, senza dubbio uno dei più forti del mondo, ndr) e di una qualche Nazionale. Quando la Croazia vince una medaglia, la federazione organizza una festa in piazza a Zagabria. Questo gennaio, quando è diventata vice-campione d’Europa, c’erano circa 50 mila persone a congratularsi con la squadra. Il sogno mio, e soprattutto quello di mia figlia, è di vincere una medaglia con la Nazionale e tornare nella mia città, in quella piazza, a festeggiare».

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