LA STORIA

Addio a Bruno Bovo, l’ultimo sopravvissuto della strage degli operai

Era uno dei 18 operai messi al muro della Lancia di Bolzano dai nazisti il 3 maggio. Fu colpito da 5 pallottole. Nel 2017, dopo 70 anni di silenzio, aveva raccontato al nostro giornale quella giornata 


di Luca Fregona


BOLZANO. Si è spento a 95 anni Bruno Bovo. Era l’ultimo sopravvissuto della strage del 3 maggio 1945 al muro della Lancia. La strage degli operai, presi a caso nelle fabbriche, uccisi per rappresaglia dai nazisti in fuga. Nel gennaio 2017 aveva accettato - dopo molte insistenze e un silenzio durato oltre 70 anni - di raccontare quella giornata. Una delle pagine più oscure (e rimosse) della storia di Bolzano. Bruno era un uomo insieme dolce e duro. Schivo e gentile. Nessuna autorità ha mai bussato alla sua porta. Nessuno si è mai premurato di fargli avere un'onorificenza. Né la Repubblica fondata sulla Resistenza, né il Comune dove ha vissuto tutta la vita. Probabilmente non l’avrebbe accettata, ma si doveva almeno chiederglielo. Ora che non c’è più, qualcuno dovrebbe pensare a come scusarsi e ricordarlo. Perché con lui, si spegne l’ultimo testimone del sangue versato nelle nostre strade quel giorno maledetto. Senza memoria, non resta niente. Di seguito ripubblichiamo parte del suo racconto. Riposa in pace caro Bruno.

«Ci hanno messo al muro della Lancia uno accanto all'altro sul ciglio del marciapiede, proprio là dove oggi c'è la targa. Eravamo in 18. Erano le dieci di mattina. Il primo colpo di mitragliatore lo ricordo bene. Il compagno alla mia sinistra è stato il primo a cadere. I proiettili gli hanno portato via la testa. Una frazione di secondo. Ci siamo stretti uno all'altro, per proteggerci. Ma i tedeschi continuavano a sparare. E lì mi sono beccato la pallottola che è entrata sotto l'ascella sinistra, è passata a tre millimetri dal cuore, mi ha attraversato il torace e si è fermata sotto l'ascella destra...». Bruno Bovo tiene gli occhi chiusi. Il 3 maggio del 1945 aveva 22 anni. È uno dei sei sopravvissuti alla strage degli operai della Zona industriale, l'unico ancora in vita. È la prima volta che accetta di raccontare. «Dopo la guerra a nessuno piaceva ascoltare questa storia, e così, dopo un po', mi sono stufato e sono stato zitto». È un uomo ancora molto bello, con un viso antico alla Franco Interlenghi, come in quei film in bianco e nero di De Sica o Rossellini. Asciutto come un'acciuga. È sopravvissuto a un'esecuzione, a un incidente sul lavoro che gli ha schiacciato bacino e vescica, e - qualche anno fa - pure a un ictus. «Tre volte mi han dato per morto. Ma ancora non uso il bastone e guido la macchina», dice. Poi si fa serio. «Il 3 maggio 1945 - riprende - sapevamo che la guerra era finita. Le truppe tedesche si ritiravano, la città era piena di sbandati. Facevo il falegname alla Sida, una fabbrica della Zona che produceva arredamenti e cassette. Abitavo con i miei in piazza Matteotti, al 14». La famiglia Bovo è arrivata a Bolzano negli anni Trenta da Merlara, Padova. «Io avevo 14 anni, mio padre era un operaio edile. Da ragazzo ho studiato da falegname». Gli ultimi giorni di guerra Bolzano è una città distrutta e in miseria, i tedeschi in rotta fanno meno paura. E c'è aria di vendetta. «Avevamo patito la fame. Eravamo poveri e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. La mattina del 3 maggio in piazza Matteotti si era sparsa la voce che al Calzaturificio Rossi regalavano le scarpe, così con un amico, Duilio Gobbato, abbiamo deciso di andarci». Il Calzaturificio Rossi si trovava in Zona dove oggi c'è la «Lama Bolzano», alla rotonda tra via Similaun e l'A22. «Per arrivare in Zona c'era solo ponte Roma. Ci incamminammo lungo via Torino. Davanti al Cinema Boccaccio ci ferma il figlio del gestore, uno dei fratelli Sfondrini. Stavano distribuendo le armi per usarle contro i tedeschi. Io e il mio amico ci siamo rifiutati di prenderle. Allora ci hanno riempito le tasche di proiettili da portare agli operai che stavano difendendo gli stabilimenti». Bruno e l'amico proseguono. Passano Ponte Roma. Costeggiano l'argine dell'Isarco. «Lì, proprio sul fiume, c'era Ceccarini, il ferrovecchi. Abbiamo sentito sparare. Non era prudente proseguire. Così ho deciso di rifugiarmi in fabbrica, alla Sida. Era poco distante. Più o meno all'attuale incrocio tra via Righi e via Pacinotti...».

ITALIANO KAPUTT. «Entro alla Sida, saluto il portinaio Andrea Cavattoni che sorvegliava l'ingresso. Non c'era molto da fare. Tutti aspettavamo che arrivassero gli americani. Il direttore dello stabilimento, il dottor Liverani, gran brava persona, mi aveva permesso di utilizzare uno stanzone per costruire la camera da letto a mio fratello. Mi sono infilato là dentro». Fuori è il caos. Gli operai e i partigiani sparano dai tetti sui tedeschi. Alcuni soldati vengono uccisi, altri catturati e tenuti prigionieri alla Lancia. Un plotone di SS inizia a rastrellare le fabbriche. «Sono entrati anche alla Sida - prosegue Bruno -. Hanno ispezionato tutti i reparti. Ci spingevano fuori uno a uno. Mi hanno preso e puntato il mitra alla schiena. Ricordo che con me c'erano Andrea Cavattoni e Antonio Peretto, un amico con un cuore grande così». Mani incrociate dietro la testa, Bovo e i compagni vengono messi con le spalle al muro della Ceda, lo stabilimento di fronte alla Sida (oggi c'è la Selectra). «Ci hanno tenuti lì, fermi in piedi mentre andavano a “prelevare” altri operai nelle altre fabbriche. Una SS faceva la guardia. Ci minacciava con la canna del mitra. Ce la infilava nella pancia e urlava. "Kaputt italiano! kaputt italiano!...». Bruno s’irrigidisce sulla poltrona. La voce si spezza. Le mani davanti agli occhi. «Mani dietro la testa, appoggiati di schiena, la SS che urla... Ero terrorizzato. Italiano kaputt voleva dire “adesso vi ammazziamo”. Non mi facevo illusioni. Ho iniziato a pregare, non mi vergogno a dirlo. Ho affidato la mia anima a Dio. Pensavo ai miei genitori, a mia madre...».

L'ULTIMO MIGLIO. I tedeschi finiscono la caccia. «Abbiamo formato una colonna. Ci hanno fatto muovere in fila indiana. Sempre con le mani dietro la testa». Poche centinaia di metri lungo via Pacinotti verso la Lancia. «L'ultimo miglio dei condannati a morte. Cosa pensavo? Niente. Mi muovevo da automa. Sentivo piangere e pregare. Sentivo le urla dei tedeschi, ma ero come drogato, anestetizzato. Quando sai che stai per morire, entri in una specie di stato di incoscienza. Almeno così è stato per me. Sei assente, lontano». La colonna avanza. Passa davanti alla Saffa (oggi c'è il parcheggio della Metro). «Ci fanno svoltare a sinistra, verso Oltrisarco. Ci ordinano di metterci davanti al muro della Lancia, esattamente dove oggi c'è la targa che ricorda i morti...». Bruno Bovo prende fiato. «Ci mettono in riga sul ciglio del marciapiede. Un'unica fila, schiena al muro. Eravamo in 18, lo so perché ci siamo contati. C'eravamo noi della Sida, qualcuno della Ceda. E poi degli operai della Lancia. Dopo un paio di minuti è arrivato un autoblindo dalla strada dove oggi c'è la Metro. Si ferma davanti a noi. Dalla torretta sbuca un tedesco. Parla con la SS a terra, che ci teneva sotto tiro. Ha atteso un attimo. Poi ha imbracciato la mitragliatrice della torretta e ha iniziato a sparare...».

IL MASSACRO. Bruno Bovo riporta le mani congiunte sopra gli occhi. Una preghiera che nasconde le lacrime. «La prima raffica stacca il collo a un ragazzo sulla mia sinistra. Aveva una camicia a quadretti neri e verdi... Non ricordo il nome. Vedendo quel ragazzo morire così, ci siamo istintivamente nascosti uno dietro l'altro. Non so come spiegarlo: ci siamo chiusi come un pugno, in una specie di abbraccio. Roba di una frazione di secondo. Le raffiche sono proseguite, siamo caduti a terra, uno sopra l'altro. Morti e feriti». Bruno viene colpito da cinque pallottole: la prima gli porta via la falange del pollice destro, la seconda lo colpisce all'indice. La terza e la quarta gli trapassano il braccio sinistro: una sotto il gomito e una sopra, nel muscolo. La quinta entra sotto l'ascella sinistra, passa a tre millimetri dal cuore e si conficca a fior di pelle sotto l'ascella destra. «Il corpo senza vita di un compagno mi è caduto addosso. Era un uomo robusto. Mi soffocava. Non riuscivo a respirare con questa pallottola che mi aveva attraversato tutto il corpo...». Non è finita. Non c'è pietà. «Mentre ero lì sotto, vedo che si avvicina un tedesco col mitra per dare il colpo di grazia... Perché i tedeschi quel giorno il colpo di grazia lo hanno dato, eccome». Bruno Bovo fa ancora più fatica a raccontare. È in apnea. Poche parole. Niente ricami. «Il primo li supplicava: "Non uccidetemi, vi prego, ho moglie e figli". Ma quella bestia, niente..». Il tedesco spara. «Il secondo urlava: "Uccidetemi, uccidetemi. Non voglio più soffrire". E quello...». Spara. «Stavano arrivando a me. Poi è successo che dalla Montecatini i partigiani hanno cominciato a sparare sui tedeschi. Dalla fabbrica avevano visto tutto, ma non erano intervenuti per non colpirci. Quando hanno visto che eravamo tutti per terra, hanno fatto fuoco. È per questo che i nazisti se la sono data. Non c'è stato nessun tedesco “buono” quel giorno».

I tedeschi scappano. A terra ci sono i morti e i sopravvissuti. Tutti feriti. «Eravamo in cinque ancora vivi: io, Andrea Cavattoni, Antonio Peretto, Walter Saudo e Duilio Gobbato». (Peretto e Saudo moriranno poche ore dopo, Cavattoni nel 1991, Gobbato nel 2016 in Canada dove viveva. Un sesto sopravvissuto, Vittorio Luise, si allontana da solo benché ferito ndr). Dalla Magnesio arriva un camion «3Ro» adibito ad ambulanza. Qui il racconto coincide con quello di Ottorino Bovo, un partigiano della Lancia arrivato sul posto subito dopo la cerneficina. «Con Ottorino non siamo né parenti né paesani nonostante abbiamo lo stesso cognome. Io lo conoscevo, ma lui non conosceva me. Appena lo vedo gli urlo: "Bovo aiutami, tirami sul camion". Lui mi ha preso e mi ha messo sul "3Ro". Sono stati Ottorino Bovo e l'autista Francesco Paolo Giudilli a caricare tutti, morti e feriti. Oggi con Ottorino siamo grandi amici». Il camion ambulanza parte per l'ospedale (che in quel periodo era in via Fago, dove oggi c'è Villa Serena). «Ero moribondo, ma sorprendentemente lucido. Ero sotto adrenalina. Se prima della fucilazione mi sentivo un automa, incapace di reagire, adesso mi sentivo vigile. Attento a tutto. Da quando ero caduto a terra dopo la mitragliata, era come se sentissi tutto amplificato. Forse la voglia di resistere, di vivere...». L'ambulanza fa ponte Roma, si ferma a Cristo Re per caricare il frate Nicola Bellagamba e la presidente della Croce Rossa, la contessa Anna Fox. «Sale questo prete, vede la situazione e ci dà la benedizione. A noi, e ai morti». L'ambulanza arriva in via Fago. «Ero in condizioni disastrose, ma capivo tutto. Ci hanno messi per terra in attesa di un letto. Vedo passare il professor Casanova, un medico dell'ospedale. Ho urlato: “Aiutami”. Lui ha tagliato la giacca e il maglione. Ha visto com'ero messo. Ha cercato di tamponare la ferita. Poi è passato il parroco di Gries, l'ho tirato per la tonaca. Si è inginocchiato e io mi sono confessato. Mi ha fatto il segno della croce sulla fronte con l'olio santo. Sapevo cosa voleva dire: era l’estrema unzione. Lui ha capito e ha avuto pietà di me. “No caro - mi dice -, lo faccio solo per prevenzione...”». Bruno Bovo viene finalmente trasferito in una stanza e sistemato a letto. «Erano le 4 del pomeriggio. Subito dopo ho perso conoscenza».

PERCHÉ IO? Per tre giorni resta in coma. I medici dicono alla madre Maria che bisogna aspettare, che solo Dio sa come andrà a finire. «Al terzo giorno mi sveglio. La vedo inginocchiata al fianco sinistro del letto con la corona del rosario tra le mani. Sta pregando. “Mamma, mamma", dico. Lei alza la testa. Prende a baciarmi. In quel preciso momento ho cominciato a vivere di nuovo. Mia madre mi ha dato la vita per la seconda volta...». Alcuni giorni dopo, quando le sue condizioni migliorano, i medici lo operano e gli tolgono la pallottola ancora in corpo. «Me la sono attaccata alla cintura come un trofeo. Ma un giorno, senza dirmi niente, mia madre l'ha tolta e l'ha fatta sparire. Non voleva più vederla...». Bruno Bovo da 70 anni si pone sempre la stessa domanda: «Perché sono sopravvissuto? Perché io? Rivedo i miei compagni, i ragazzi che erano con me quella mattina. Non ho risposte, se non quella di affidarmi a Dio».













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