LIBRI

Salman Rushdie  e la libertà  di scrivere 

La conoscenza è la sola morale del romanzo”, ha scritto Milan Kundera in uno dei saggi contenuti nel suo “L’arte del Romanzo” (Adelphi), riprendendo Hermann Broch. Il significato è chiaro: il romanzo,...



La conoscenza è la sola morale del romanzo”, ha scritto Milan Kundera in uno dei saggi contenuti nel suo “L’arte del Romanzo” (Adelphi), riprendendo Hermann Broch. Il significato è chiaro: il romanzo, che accompagna il cammino dell’uomo almeno dall’inizio dei Tempi Moderni, ma che affonda le sue radici nelle forme letterarie classiche, l’epica, la tragedia, la commedia, è pervaso dalla “passione di conoscere”. Il romanzo nasce dalle domande che l’uomo si fa su se stesso e sulla sua esistenza, cioè sull’avventura, l’amore, dio, la guerra, il riso, il sogno, la morte. Questa è la sua missione, e questo è anche il suo approdo: più conoscenza, ma anche nuove domande. La premessa è necessaria per parlare di un autore, Salman Rushdie, che ha recentemente dato alle stampe un nuovo libro “Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio” (Mondadori, trad. Gianni Pannofino). Il libro nasce dal tentato omicidio di cui l’autore è stato vittima nel 2022, per mano di un uomo che voleva dare esecuzione alla fatwa scagliata contro Rushdie da Khomeini nel 1989, dopo la pubblicazione del romanzo “I versi satanici” (Mondadori, 1988, trad. Ettore Capriolo), giudicato offensivo nei confronti dell’Islam.

È proprio quel romanzo che vorrei segnalare oggi, perché penso sia utile cercare di capire che cosa contiene un libro che ha provocato, nel XX secolo, nientemeno che una condanna a morte, quindi qualcosa di peggio di una “semplice” (si fa per dire) censura.

“I versi satanici” è un romanzo permeato d’immaginazione, nello stile di Rushdie e di altri autori del genere cosiddetto del “realismo magico” (spesso provenienti da tradizioni letterarie non-occidentali, e quindi probabilmente meno condizionati dal canone naturalista-realista di matrice europea ottocentesca). Al tempo stesso è un romanzo che affronta temi di carattere religioso, inerenti all’Islam e come tali a noi difficili da comprendere nella loro interezza.

Due i percorsi narrativi principali: il primo racconta la storia di Gibreel Farishta e Saladin Chamcha, due attori indiani, uno divenuto famoso per avere impersonato numerose divinità indiane, l’altro come doppiatore, che precipitano da un aereo diretto a Londra a causa di un attentato, ma non muoiono. I due però sono anche altro: la personificazione dell’Arcangelo Gabriele e la sua controparte satanica.

Il secondo percorso trae spunto da alcuni versi del Corano e racconta di come Maometto, venuto alla Mecca per imporre il monoteismo islamico ad un mondo nettamente politeista, decide dapprima, per ragioni di opportunità, di accogliere nel suo pantheon tre dee pagane, ma poi torna sulla sua decisione.

Il romanzo, nelle sue infinite digressioni, si occupa anche d’altro: del trattamento riservato agli immigrati clandestini dall’Inghilterra, ad esempio, di un imam che sembra proprio Khomeini, o una storia d’amore nella Patagonia argentina, del cinema di Bollywood e quant’altro.

“I versi satanici”, a mio parere, e lo dico da lettore innamorato del Rushdie de “I figli della mezzanotte”, non è un capolavoro: è dispersivo, labirintico, estenuante, e come se non bastasse infarcito di parole ed espressioni indiane che spesso non conosciamo. Non so nemmeno se possa essere considerato “blasfemo” da un credente, penso che pochi fra i suoi detrattori, in Iran o altrove, lo abbiano letto davvero. Ma, certo, è un romanzo che pone delle domande e semina dubbi. E, come dicevamo all’inizio, è questo il mestiere del romanziere. E come tale, non è negoziabile.















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