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Calamità naturali, tre donne in prima linea

Sono tre ricercatrici di Eurac Research e si occupano della «gestione dei rischi». Lydia Pedoth, 35 anni: «Ho imparato una cosa: la sicurezza al 100 per cento non esiste»


di Massimiliano Bona


BOLZANO. «Nell'immaginario collettivo, quando si pensa alle calamità naturali e alle gestione dei disastri, affiorano alla mente uomini in prima linea con gli stivali e donne che aspettano a casa con i bambini in braccio. Beh, noi tre siamo l'esempio che la gestione del rischio si può declinare anche al femminile»: inizia così l'intervista con Lydia Pedoth, 35enne di Lagundo che assieme ad una geologa (Romy Schloegel) e ad una geografa (Kathrin Renner) fa parte di un gruppo di ricerca di Eurac Research che sembra fatto apposta per smentire i luoghi comuni. Tra i casi di cui si è occupato il gruppo, in cui ci sono anche diversi uomini, c'è anche la frana del dicembre 2012 nel Comune di Badia, che distrusse quattro abitazioni danneggiandone molte altre.

Lei è laureata in scienze politiche. Come è arrivata ad occuparsi di gestione del rischio?

«In realtà sono stata assunta all'Eurac per un progetto legato ai cambiamenti climatici, poi ho accettato con entusiasmo questa nuova sfida, tanto da entrare in una rete internazionale di sole donne che si occupa dei vari temi legati al rischio».

Una rete di sole donne che si occupa di disastri naturali?

«Si chiama Women Exchange for disaster risk reduction (we4DRR) ed è stata istituita proprio con l'idea di supportare le poche donne che lavorano in quest'ambito, molto spesso di pertinenza maschile. Ci scambiamo esperienze e competenze e cerchiamo di far nascere nuove collaborazioni. A maggio ci troveremo a Trento: in gruppo ci sono ricercatrici e professioniste che lavorano nell'amministrazione».

E gli uomini sono tagliati fuori da questa rete?

«C'è chi vorrebbe favorirne l'ingresso e chi ritiene invece che sia meglio proseguire così. Almeno per un po', in modo da dare al gruppo più forza e un'identità ancora più definita».

Lei e le sue colleghe lavorate anche sul campo?

«Si, soprattutto Romy, che fa la geologa. Ci occupiamo del monitoraggio dei pericoli naturali, ma sfruttiamo anche il contributo della tecnologia con satelliti, radar e gps. La geografa, Kathrin, fa analisi legate allo spazio di un dato ambiente, mentre io mi occupo più degli aspetti sociologici legati alla comunicazione e alla percezione del rischio, oltre che del coinvolgimento della società».

Se c'è un disastro naturale la reazione delle donne e degli uomini cambia?

«Cambiano, spesso, i canali informativi. Le donne, ad esempio, si documentano di più sfruttando anche al meglio le notizie dei giornali e della rete. Gli uomini in Alto Adige sono più attivi nel campo dei soccorsi e preferiscono rivolgersi ai vigili del fuoco o alla protezione civile. In assoluto, però, vengono ritenute più credibili le informazioni provenienti dalla famiglia o da un gruppo ristretto di conoscenti».

A Badia, ad esempio, i residenti sapevano di rischiare di perdere la casa perché si trovavano in una zona rossa?

«Molti, dalle nostre ricerche, erano consapevoli di vivere in un'area a rischio ma non si aspettavano una frana di queste dimensioni. Il nostro punto di partenza, nel caso di Badia, è stata una semplice domanda "Cosa possiamo imparare dalla frana?”»

E cosa avete scoperto?

«Intervistati subito dopo il disastro gli abitanti di Badia si sono detti soddisfatti del supporto ricevuto durante l'emergenza mentre 16 mesi dopo molti ritenevano di non saperne abbastanza e non si sentivano più così sicuri nell'affrontare eventi catastrofici».

Lei cosa ha imparato lavorando in un team che si occupa di gestione del rischio?

«Una cosa che forse può apparire scontata: la sicurezza al cento per cento non esiste».













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