La storia

Era in pensione, poi è tornato dai malati Covid: «Dovevo farlo» 

Claudio Valerio, infermiere bolzanino, insignito del titolo di Cavaliere per la generosità dimostrata durante la pandemia. L’autunno scorso ha scelto di rientrare in servizio a Villa Europa e Don Bosco, ma si è  ammalato ed è finito in Terapia intensiva: «E' stata dura, ma ce l’ho fatta»



BOLZANO. «Maria Grazia, mia moglie, mi ripeteva: la tua parte l’hai fatta; sei appena andato in pensione, è arrivato il momento di fermarsi». Era la fine di ottobre del 2020 e Claudio Valerio, 64 anni, infermiere bolzanino - insignito il 4 novembre dell’onorificenza di cavaliere della Repubblica firmata dal presidente Sergio Mattarella, per la generosità dimostrata durante la pandemia - in quel momento era in camper a Sirolo nelle Marche, per qualche giorno di vacanza che coincideva con l’inizio della pensione. Dopo mesi duri, passati a fronteggiare l’emergenza Covid come coordinatore del servizio infermieristico delle case di riposo Villa Europa e Don Bosco, aveva deciso di concedersi qualche giorno di relax. Ma da Bolzano continuavano ad arrivare telefonate sempre più preoccupate delle colleghe.

Dopo un’estate relativamente tranquilla, i contagi erano tornati a correre e all’inizio di novembre i primi due casi erano stati isolati tra i pazienti della Don Bosco. Nonostante le precauzioni adottate, mettendo in pratica quello che Valerio aveva imparato anni prima, durante un corso per allarme chimico e batteriologico, tenuto da Ezio Miozzo e Fabio Ragazzi, istruttori dei vigili del fuoco.

«Siamo rientrati il 9 novembre e il giorno dopo ero di nuovo in servizio. Non potevo non andare a dare una mano: il 50% degli infermieri e il 30% degli operatori socio-sanitari erano positivi. Ho trovato l’inferno. Avevamo una quindicina di persone sotto ossigeno; un salvavita in quel momento difficile da trovare. I più fragili, il virus li ha portati via in cinque giorni. Un disastro».

«Sono sempre stato scrupoloso nel seguire le regole per ridurre i rischi, ma il 23 novembre il Covid ha colpito me. È scattato l’isolamento: io in una stanza; mia moglie in un’altra e mia figlia in un’altra ancora. Sono rimasto a casa una settimana: avevo la febbre, speravo di cavarmela così. Questo però è un virus subdolo che aggredisce i polmoni. All’inizio di dicembre sono finito in ospedale, nel reparto di Malattie infettive. Poi il trasferimento in Terapia intensiva, dove sono rimasto otto giorni. Un incubo. Medici e infermieri però hanno fatto di tutto per curare il corpo e tener su il morale: mi incoraggiavano a non mollare. Nei momenti più difficili, mi dicevo: quando hai fatto il militare, i tuoi colleghi montavano la guardia a meno 20 a San Candido; puoi farcela anche tu. E così è stato».

Natale lo ha passato in ospedale, il 28 dicembre però era di nuovo a casa e ha potuto riabbracciare la moglie e i figli Simone e Sofia. «La ripresa è stata lenta: ci sono volute settimane, per recuperare i dieci chili persi e la forza. Il merito è di mia moglie che mi ha spronato ad alzarmi dal divano, anche se la voglia era pari a zero. Adesso comunque mi sono ripreso e sono tornato a fare volontariato alla Croce Rossa dove ho iniziato che avevo 14 anni».

«Durante la pandemia - spiega - nessuno si è tirato indietro: infermieri e medici hanno fatto turni massacranti; rischiato in prima persona; visto con i propri occhi i disastri provocati dal virus. Non è possibile che adesso ci sia chi non si vaccina. Sa cosa farei io?»

Cosa? «Renderei obbligatoria per aspiranti medici e infermieri “Storia della medicina”, materia oggi facoltativa. O superi l’esame o non puoi fare quelli successivi. Allora capirebbero - semmai non fosse ancora chiaro - l’importanza dei vaccini nella storia dell’umanità. Io ho provato sulla mia pelle cosa può fare questo virus; e prima ancora lo avevo visto sugli ospiti delle case di riposo». A.M.













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