VIOLENZA SULLE DONNE

«Ero incinta e mi dava calci al pancione: ho detto basta» 

Anna, 24 anni, bolzanina, picchiata dal compagno: «Finivo all’ospedale ma non dicevo la verità»


di Luca Fregona


BOLZANO. Per proteggerla la chiameremo Anna. Ha 24 anni ma ne dimostra molti meno. Stringe al petto un fagottino in tutina viola. È la sua piccola di neanche un anno. Per lei, dopo un calcio nel pancione quando era ancora incinta, Anna ha detto basta ad anni di botte. Ora vive con la bimba in una struttura protetta, dove sta cercando di ricostruirsi una vita e, cosa non scontata, di non cedere mai più ad un amore malato. Questa è una storia che ci riguarda. Succede nelle nostre case, in un piccolo centro alle porte di Bolzano dove tutti sanno tutto di tutti. Anche che una donna viene picchiata nell’appartamento accanto. Anna però non cerca alibi. La sua storia te la racconta così come è: cruda e senza sconti. «Ci siamo conosciuti 4 anni fa - inizia - prima su Facebook, poi di persona. Io avevo 19 anni, lui 40». Un uomo più maturo con un matrimonio finito alle spalle e due figli piccoli. «Il primo anno è stato bello. Io ero molto innamorata. Lui era premuroso, gentile. È venuto subito ad abitare da me: mi aiutava nelle faccende di casa, mi montava i mobili, se si rompeva qualcosa l’aggiustava». Dopo pochi mesi però qualcosa si incrina. «I segnali c’erano già. Spesso si ubriacava, quando beveva perdeva il controllo. Ma io non vedevo. O non volevo vedere». L'uomo è molto geloso, durante la settimana è via per lavoro, quando rientra il venerdì sera parte l’interrogatorio: «Dove sei stata? Chi hai visto? Perché sei uscita?». Controlla le sue conversazioni su Facebook in maniera ossessiva. «Cercavo di calmarlo. Gli spiegavo che sì avevo visto i miei amici, ma che non c’era nulla di male». Lui non le crede. Accecato dall'alcol, partono le botte. «La prima volta mi ha riempito la schiena di calci. Mi mancava l’aria. Pensavo di morire. Ho cercato di difendermi ma non ci sono riuscita». Ogni fine settimana la stessa storia. «Il venerdì ero sempre terrorizzata, sapevo quello che mi aspettava. Ma non riuscivo a staccarmi da lui. Pensavo fosse colpa mia, di aver fatto qualcosa di sbagliato. Speravo che prima o poi cambiasse». Ma lui no, non cambia. A volte la picchia così forte, lasciandole lividi e gli occhi pesti, che lei non è in grado di andare al lavoro. «Chiamavo la titolare e inventavo delle scuse. Ma lei capiva. Si è offerta anche di ospitarmi, io rifiutavo sempre, tornavo da lui. Quando potevo, nascondevo le ecchimosi sulla fronte con la frangia dei capelli».

Quando lui esplode, Anna non sa dove nascondersi. La casa è piccola: stanza, cucina, bagno. Se lei si chiude a chiave, lui sfonda la porta e la mena ancora più forte. In più di un’occasione sono i vicini a “salvarla”. Sentono le urla, arrivano alla porta, suonano, bussano, chiamano anche i carabinieri. «Prendeva paura, si calmava come un agnellino. Io poi minimizzavo perché mi vergognavo. È difficile da spiegare: mi rifiutavo di credere che una cosa del genere stesse capitando proprio a me». Non ha la forza di denunciarlo. Una sera la scaraventa in terra, la riempie di calci, le salta addosso, le mette le mani alla gola. «Ho pensato, è finita. Ho fatto l’unica cosa che potevo: ho smesso volutamente di respirare, fino quando lui si è accorto che stavo diventando viola e ha mollato la presa. Da allora ho fatto sempre così». Per sopravvivere Anna sviluppa quella che chiama “la mia tecnica”. «Quando mi picchiava, trattenevo il fiato. Mi vuoi ammazzare? No caro, decido io quando morire. Allora lui si calmava, perché non aveva più potere su di me». È il gioco del gatto e il topo. Il gatto si diverte a torturare il topo ma non lo uccide. Perché se lo uccide, il dominio finisce. «Con la sua ombra, lui definiva il mio spazio. E io, purtroppo, non riuscivo a ribellarmi. Nemmeno quando finivo all’ospedale». Una domenica sera lui le rompe un dito e le gonfia la faccia. Anna finisce al pronto soccorso. Racconta la solita balla “sonocadutadallescale”. I medici non le credono ma non segnalano la violenza a chi di dovere. La ingessano, un mese di prognosi, e tutto torna come prima. Un giorno lui rientra così ubriaco, che lei trova il coraggio di lasciarlo fuori di casa. Ma dopo poche ore sono i genitori dell’uomo a riportaglielo indietro, obbligandola a “tenerselo”, sapendo che sarebbe stata un'ennesima notte di botte. Anna cerca anche di parlargli. Ma lui è catatonico: «Quando bevo spengo il cervello. Non mi importa chi ho davanti. Uomo o donna, io picchio».

Anna due anni fa resta incinta. Lui dice di essere contento, ma durante uno dei soliti “interrogatori” del venerdì, mentre lei è già in stato avanzato di gravidanza, si scatena peggio di una bestia. Le strappa il telefonino, controlla le chiamate. Anna accenna un minimo di resistenza, lui la scaraventa a terra. Le tira un calcio violentissimo sotto il pancione, sull'addome. Anna sta male ma non chiede aiuto. Né ai genitori, né alle amiche. Non chiama l’ambulanza. «Non mi fidavo di nessuno, avevo troppa paura». Sale su un bus e va al pronto soccorso. Da sola. In ospedale capiscono al volo cos’è successo. Questa volta la balla del “sonocadutadallescale” non regge. Parte la segnalazione ai servizi sociali e ai carabinieri. Lei, ancora una volta, non ha la forza di sganciarsi, lascia cadere la denuncia. «Ho capito però che non potevo andare avanti così. Non volevo che la mia bambina vedesse tutto questo». Quando la piccola nasce, Anna viene contattata dai servizi sociali. La situazione ormai è nota: c’è un minore da tutelare. Anna accetta di andare con la bimba in una struttura protetta. All’inizio è dura: bisogna rispettare regole e sostenere colloqui con le assistenti sociali e le educatrici. Deve accettare di farsi aiutare. «Per me non era facile parlare di tutta quella violenza. E ancor meno del perché non mi sono ribellata per quasi 4 anni». Col tempo, Anna non solo entra in dialogo fitto con le operatrici, ma comincia anche a prendere una nuova coscienza di sé. Ad emanciparsi. Tanto d’aver accettato questa intervista: «A chi vive quello che ho vissuto io, dico di non aspettare un giorno di più. Andate subito a denunciarlo».

Il padre di sua figlia oggi ha il divieto di avvicinarsi. Può vedere la piccola solo davanti agli assistenti sociali. Non versa un euro per il mantenimento. Anna invece guarda avanti. Tra poco, quando sarà pronta, c’è una casa che l’aspetta, e un lavoro. Al sicuro.

 













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