La storia

Gabri e Marcello, una targa per sempre sulle Alpi svizzere 

Il racconto di Cristina Bernardi: l’abbiamo agganciata alla roccia nel punto in cui sono stati trovati


Valeria Frangipane


BOLZANO. «Era tempo che volevo salire lassù, nell’ultimo luogo che ha visto viva mia sorella. Per starle vicino anche così. E fare finalmente pace con quelle cime».

Ma occorreva che le emozioni sedimentassero, che il dolore si facesse meno inaccettabile.

Cristina Bernardi - che più di quattro anni fa sulle Alpi svizzere ha perso Gabriella - pochi giorni fa ha toccato quelle rocce con mano, dopo esserci arrivata con i ramponi.

La tragedia.

Era il 30 aprile del 2018 quando un gruppo di otto alpinisti esperti rimase bloccato per una tempesta nella zona della Pigna d'Arolla. Sette le vittime e un solo superstite in quella che è stata una delle più grosse tragedie della montagna degli ultimi anni. Strappati alla vita dopo una notte allucinante passata al gelo a 3.270 metri di quota, lungo l'itinerario scialpinistico Haute Route dal Monte Bianco al Cervino. Tre di loro erano bolzanini: Gabriella Bernardi (52 anni) direttrice delle risorse umane della Thun, il marito Marcello Alberti (53 anni) commercialista ed Elisabetta Paolucci - per tutti Betti (44 anni) - insegnante alle Pascoli.

Cristina Bernardi pochi giorni fa è salita su quella montagna insieme al figlio - Marco Spagnolli - in una splendida giornata di sole.

Con loro la guida Antoine e due amici, marito e moglie, Maurizio Marchesi e Gea Mazzoni (che avrebbe voluto essere lì nel 2018 ma era stata trattenuta da un impegno di lavoro).

Il punto esatto.

Antoine è stato uno dei soccorritori che arrivò tra i primi sul posto. Conosceva il punto esatto, aveva visto e recuperato gli alpinisti ancora in vita, sarebbero morti poco dopo in ospedale.

«Ad un certo punto della salita sul ghiacciaio mi ha detto “ è lì che dobbiamo andare”. Gli ultimi metri per me sono stati pesantissimi».

Dolore profondo misto a disperazione.

La targa.

«Nello zaino avevamo una targa di granito con la scritta “Gabri e Marcello... lasciali andare per le tue montagne” (dal “Signore delle cime”), poi agganciata alla pietra che aveva vegliato su di loro quando non ce l’hanno più fatta». A cinquecento metri in linea d’aria si vede bene il rifugio Cabane des Vignettes, sarebbe stata la salvezza ma nessuno dei sette ci è mai arrivato.

«Ad agosto in una bella giornata e con le maniche corte lo raggiungi in un’oretta - racconta Cristina - impensabile farlo in piena tempesta, a 20 gradi sottozero, il vento che non ti dà pace e visibilità nulla».

Tre le parole lette a targa appena posata anche un ricordo di Betti Paolucci. Poi queste riflessioni: “Non ho ancora trovato il senso in tutto questo, e non penso che lo troverò. L’unica lezione abbastanza banale che posso tirar fuori è che la morte fa parte della vita, e arriva. Però è anche ciò che dà senso alla vita, ci spinge ad amarla, ad aggrapparci a lei, a goderci i momenti migliori e ad essere resilienti in quelli peggiori. Forse è questo il punto: non si può dare senso alla morte ma si deve dare senso alla vita”.

L’inizio dell’incubo.

«Lo ricordo bene - dice Cristina - ero a cena a Berlino con i miei figli. Insieme a Marco, Lidia. Da New York mi chiama Fabia Dattilo, amica di sempre di Gabri. Mi dice “chiama Marina, la sorella di Marcello”. Sapevo che erano a più di 3.000 metri e ho fatto quella maledetta telefonata. Mi ha detto “non ce l’hanno fatta”. Era successo l’irraccontabile. Dovevo avvertire i miei genitori, non sapevo come fare. Non capivo cosa stesse accadendo. Poi il buio.

Abbiamo preso l’aereo fino a Monaco e di corsa in autostrada a Sion, dove mi attendeva il riconoscimento. Ero senza fiato.

Gabri aveva il volto, scuro per il congelamento, contratto dalla paura. Marcello sembrava dormire, era sereno. Quel giorno - come dice Marco che era lì con me - qualcosa dentro di noi si è rotto, come quando scoppia una bomba e gli orologi si fermano. Ecco dentro di noi un orologio si è bloccato e segna quel maledetto giorno di aprile. Non è più una ferita aperta, certo, ma la cicatrice resta, e quando ci premi sopra fa ancora male».

Il ricordo.

«Mia sorella aveva un anno meno di me. Schiva, estremamente prudente, precisa, molto sensibile. Siamo cresciute insieme, sempre vicine in un rapporto che negli anni è mutato, si è fatto più profondo. Insieme al liceo e poi alla Cattolica di Milano. É morta vicino all’uomo che era stato tutta la sua vita, si conoscevano da sempre, coltivavano le stesse passioni. Mai avrei pensato di dovermi affidare solo al suo ricordo man mano che la vita fosse andata avanti». Cristina non accusa nessuno: «Con i se e i ma non si va da nessuna parte. L’unica realtà con la quale faccio i conti tutti i giorni è l’ assenza. La natura è così, materna e matrigna. Dà e prende. A me ha strappato un affetto enorme».

L’abbraccio.

«Ho sentito Gabri con me. Mi sono riappacificata con quei luoghi. Ho chiuso il cerchio. Credo dentro di me che lei e Marcello ci abbiano regalato le splendide giornate di sole che abbiamo avuto. Adesso sono serena. Tra quelle asperità sono salite con me un’infinità di ricordi, volti e persone care. Lidia ed i miei genitori, anche se non erano con me. Ho attaccato alla targa due conchiglie che mi avevano dato Matteo e Cinzia, i suoi amici, perchè lei amava il mare. Le ho lasciato un nastro rosa con “L’incanto della fragilità” che avevo preso a giugno a Roma e portato con me in vacanza. Perchè sentisse il rumore delle onde e il caldo. Poi abbiamo letto e bruciato profumandole d’incenso dei biglietti cari, per renderli eterni».

Gea Mazzoni si è affidata ad una frase di Walter Bonatti: “Chi più in alto sale, più lontano vede, chi più lontano vede, più a lungo sogna”. «Andare lassù è stato emotivamente molto impegnativo - chiude Cristina - ma lì ho ritrovato Gabri. Ringrazio - tra gli altri - Tommaso, guida di Solda, che mi ha preparato a salire sopra i tremila. Alexandra, l’amica che mi seguito in tanti tour di avvicinamento. Maurizio Marchesi che ha messo in moto una macchina organizzativa perfetta (solo per apporre la targa occorrevano una serie di permessi). Grazie anche a Fabio Guerra che mi ha aiutato a realizzarla. Era la mia impresa per mia sorella. Gliela dovevo. E l’ho compiuta».













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