Giorno del Ricordo una ferita aperta 

Testimonianze dell’esodo nella celebrazione sul Lungotalvera Caramaschi: «Non c’è differenza tra Auschwitz e le foibe»


di Sara Martinello


BOLZANO. Un cielo di piombo, per terra il ghiaccio e la fanghiglia dell’ultimo inverno. La terra impasta il Giorno del ricordo nella memoria degli inghiottiti nelle cave di bauxite e nelle foibe, dei 350 mila esuli, delle vite spezzate dalla furia nazionalista. Ieri la cerimonia presso la lapide sul Lungotalvera a ricordo degli esuli istriani, dalmati e fiumani è stata caratterizzata soprattutto dalle parole di Giovanni Ivan Benussi, presidente dell’associazione provinciale giuliano-dalmata. Una trattazione storica particolareggiata, con testimoni precisi a cui attingere per un discorso robusto in cui tutti sono coinvolti, da Alcide De Gasperi a Pietro Nenni, da Winston Churchill al Comitato di liberazione nazionale.

Tra le persone che ieri hanno partecipato alla commemorazione organizzata dal Comune – autorità come il vicepresidente provinciale Giuliano Vettorato e il commissario del Governo Vito Cusumano, forze dell’ordine, associazioni combattentistiche e d’arma –, alla quale nel pomeriggio è seguito un corteo di Casapound, diverse erano discendenti degli esuli di nazionalità italiana costretti ad abbandonare la Venezia Giulia e la Dalmazia dall’arrivo delle forze jugoslave nel maggio del 1945. Lo ricorda bene Luciano Devescovi, presente alla cerimonia: «Tito entrò a Fiume con la sua Cadillac nera, regalo degli americani». «Quando l’ideologia diventa fanatismo, l’umanità perde se stessa». L’intervento di Renzo Caramaschi si apre con le considerazioni amare di un sindaco «mortificato nel portare quei fiori al cippo di Norma Cossetto» nel corso della piccola cerimonia tenuta poco prima in via del Ronco. «Vorrei una società senza cippi, senza la ferita di un’umanità oppressa, vituperata, martoriata. Non c’è differenza tra Auschwitz e le foibe. La pulizia etnica è la sofferenza di un’umanità ansimante: e noi, minuscoli granelli di sabbia, non possiamo fare altro che evitare con tutte le nostre forze che quelle efferatezze si ripetano».

I figli degli esuli portano ancora nel cuore la nostalgia di quelle terre. Giovanni Salghetti Drioli a Zara ci torna spesso. «Questo è un giorno di mestizia, si pensa ai parenti che non ci sono più, ai ricordi», commenta l’ex sindaco. Ma il 10 febbraio, a Zara, di iniziative a memoria dell’esodo, dei bombardamenti e delle confische se ne fanno poche, per quei 500 italiani che ancora vivono lì. «Solo dopo vent’anni di lavoro siamo riusciti a istituire la scuola dell’infanzia italiana – prosegue Salghetti –. La frequentano circa trenta bambini. Per la scuola elementare abbiamo trovato una certa resistenza nell’autorità croata».

Ivan Benussi, anche lui figlio di esuli, prende le mosse dalla geografia storica per arrivare ai carteggi che nell’immediato dopoguerra testimoniarono i massacri e l’esodo. Cita l’impero di Cesare Augusto, le incursioni degli Avari, i confini storici dell’Italia fino al 1947. Cita il giornalista Rino Alessi quando pronuncia il verbo della carneficina, ma ricorda anche Churchill: «Il primo a fornire aiuto militare a Tito fu anche colui che nel 1945 scrisse a Stalin che grandi crudeltà erano state perpetrate in quelle terre ai danni degli italiani. Già nel ‘44 la conferenza dei vescovi di Trieste, Parenzo, Udine e Gorizia parlò di una lesione della dignità dell’uomo e di un’involuzione paurosa verso uno stato di barbarie. Lo stesso Comitato di liberazione nazionale si recò a Roma per denunciare gli arresti in massa di fascisti e non, mentre De Gasperi a Washington protestò contro l’atteggiamento passivo delle truppe americane nell’assistere alle violenze, e nel ‘45 inviò una lista coi nomi e i cognomi degli italiani deportati. E ancora, è il 1946, Pietro Nenni denuncia i sequestri di beni a piccolissimi proprietari, persone che non avevano quasi nulla. Abbiamo le testimonianze dei massicci prelievi notturni di cittadini inermi, abbiamo i verbali resi da testimoni oculari alle autorità italiane tra il ‘44 e il ‘45. La realtà delle foibe era sotto gli occhi di tutti. Per questo chiedo di smetterla col revisionismo storico».

Gli esuli e le loro famiglie si sono integrati bene nel tessuto sociale altoatesino, nel segno di una convivenza positiva cui hanno dato un importante contributo. Faticosamente si superano i nazionalismi contrapposti, le identità rigide sulla cui base la storia viene impugnata. La presenza della sezione provinciale dell’Anpi è tesa a corroborare il valore del Giorno del ricordo, come conferma il presidente Guido Margheri: «Rendere onore alle vittime significa affermare i valori di pace e libertà della Costituzione, punti di riferimento di questa giornata insieme al processo di costruzione di un’Europa collegata da ponti, e non divisa da muri». L’Anpi partecipa al Giorno del ricordo fin dalla sua istituzione, nel 2004. Le recenti polemiche montate a seguito della pubblicazione online di un post dal sapore negazionista da parte dell’Anpi di Rovigo (dal quale poi la sezione si è dissociata), con la minaccia di Matteo Salvini di sopprimere i fondi all’Associazione nazionale partigiani d’Italia, non sembrano aver scalfito la tenuta di quest’ultima nell’adesione compatta alle manifestazioni del 10 febbraio. «Il valore unitario della Resistenza che ha portato alla stesura della nostra Costituzione è più forte delle polemiche – risponde Margheri –. Chi cerca di strumentalizzare queste ricorrenze lo fa per rivincita, a partire da idee fondate sugli stessi disvalori che nella storia hanno causato tragedie immani. Parafrasando Norberto Bobbio, se avessero vinto i nazisti oggi l’Italia sarebbe un enorme lager: è nostro dovere proseguire il lavoro delle resistenze europee e far sì che la storia non si ripeta».

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