Il pranzo del giovedì e il cubo-dei-vestiti. Benvenuti in piazza Frank
Nel rione Ortles-Casanova di Bolzano, la cucina popolare auto organizzata dagli abitanti. Un posto dove tutti si aiutano
Bolzano. Polenta gialla di grana grossa, spezzatino, piselli e gli ultimi funghi di stagione. La carne è tenera come il burro. Il sughetto da sballo. La polenta perfetta. Rimestolata per un’ora nel paiolo a fuoco lentissimo. Di dolce, la crostata. Hanno cominciato una volta al mese, poi due, poi tre. Da due anni l’appuntamento è fisso a mezzogiorno ogni giovedì. Ogni giovedì Lucia Martelli cambia menù, la gente chiede “che c’è oggi?”, e si prenota. Lei fa la spesa al Despar lì accanto o all’MPrise di piazza Pichler. «Dipende dalle offerte». Poi si mette ai fornelli con Luisa Bonetto e prepara per tutti. La spesa si divide per 20 perché quello in genere è il numero di chi arriva il giovedì. A mezzogiorno-meno-cinque la tavola è imbandita. Il cabernet sfuso nelle brocche azzurre. Il pane a fette nei cestini di paglia ogni quattro piatti. A mezzogiorno-e-cinque la sala è piena. Una lunga unica tavolata. Sono tutti del rione Ortles. Vicini di casa diventati amici negli anni. L’età vola sopra i 70 ma è solo un dettaglio. La parola “anziani” qui non va bene. È riduttiva. Non ha senso. È una cucina popolare, una tavolata curiosa, vivace, accogliente, rumorosa. Si conversa di tutto. Non si vede nemmeno un telefonino. Nessuno fotografa i piatti per postarli in diretta. Che bello, che pace. La sala, poi, non è una “sala”. Questa è una CASA. Non c’è niente di freddo. Tutto legno, zero plastica. Luci calde al posto dei neon. Il sofà, la libreria, i disegni dei bambini... È la sede dell’associazione Vispa Teresa. Dà direttamente in strada, su piazza Anne Frank. Nove bolzanini su dieci non sanno nemmeno dove sia piazza Anne Frank, qui sul confine immaginario tra Ortles e Casanova, due rioni che fanno fatica a integrarsi per farne uno solo. L’ultima fermata di Bolzano prima delle campagne, ma ancora dentro Don Bosco.
Noi e loro. Leone Sacchett serve piatti fumanti. Arturo Ferrari versa il rosso: «A questi pranzi - dice - siamo tutti solo di Ortles perché, vedi, abbiamo una certa età...». Due mondi vicini e diversi. Noi (Ortles): arrivati qui agli inizi degli anni Ottanta con le coop. Loro (Casanova), negli ultimi 10/15 con altre coop e l’Ipes. Noi (Ortles) siamo “anziani”, baby boomer, genitori di figli che oggi viaggiano tra i 50 e i 60. Loro (Casanova): famiglie giovani, con tanti bambini e spesso un background migratorio. Da piazza Anna Frank passa una linea invisibile che a volte ha la forza del muro di Berlino. In mezzo a fare da cerniera, i volontari e gli operatori della Vispa Teresa. Arturo Ferrari è in pensione. Un anno fa ha perso l’amatissima moglie Marica. «Vivo in via Similaun dal 1983, quando le cooperative hanno costruito i primi condomini. Io, Casanova, non so nemmeno com’è, non ci vado mai». È una battuta ma neanche tanto. Intende, Arturo, che se Casanova resta un dormitorio, e gli anziani di Ortles non riescono a trovare un punto in comune con le famiglie appena arrivate, è difficile vivere insieme, diventare una comunità sola. Ci vuole uno sforzo. Deve esserci buona volontà, da una parte e dall’altra. O tutto va irrimediabilmente a scatafascio come in un film di Spike Lee.
Il cubo-dei-vestiti. La Vispa ci prova, e anche Arturo Ferrari ci crede. Fa il volontario: tre giorni in settimana gestisce il “cubo-dei-vestiti”. Una specie di armadio piazzato in strada dove chi vuole può lasciare capi usati in buone condizioni. Arturo, Tiziana e Loredana li prendono, li lavano, li piegano, e li rimettono in circolo. «Chi ne ha bisogno, passa e prende, semplice no?». Scarpe, cappotti maglioni. Ma anche coperte. «Le consegniamo alle associazioni che assistono i migranti». Il cubo-dei-vestiti, racconta Ferrari, «lo ha costruito uno dei nostri, Antonino. Uno bravissimo, che faceva il falegname...». In effetti il “cubo” non è un semplice deposito-armadio. È una piccola opera di design. Una cosa bella, ragionata, pensata, fatta a mano. E quando Arturo dice “uno dei nostri”, viene fuori quell’orgoglio, quel senso di appartenenza, che a Bolzano non si sentiva più da quando il Pci vendeva l’Unità casa per casa in via Resia. La fierezza di far parte di una comunità di quartiere, che si sostiene e accudisce.
We are family. Prendete la storia di Lidia: viveva da sola in via Similaun. Il figlio voleva che andasse da lui, in centro. Ma lei niente: «Io non mi muovo - diceva - qui ho la mia famiglia. È la Vispa». Quando poi ha avuto bisogno di assistenza, chiedeva di essere accompagnata ogni giovedì a “mangiare dalla Lucia”. E se il figlio non poteva, andavano loro a prenderla. Quando Lidia è morta, il figlio ha fatto una generosa donazione all’associazione. In segno di gratitudine.
Carmen Sanin è una signora ipovedente con la grinta di Mike Tyson quando stendeva Spinks in 91 secondi. «Non ci vedo - dice dritta al punto -. Da sola non sarei mai in grado di arrivare qui anche se abito a 300 metri». Invece non manca un giovedì perché passa a prenderla Renato Burattin. E se non può Renato, arriva Sergio Valcanaia con la moglie Rita Dallapiccola.
Maria Giglio ogni settimana accompagna la sua bellissima mamma Dolores, un’ex insegnante di 92 anni identica alla regina Maria José, che oggi fatica a riconoscere il mondo che la circonda. «Ma per lei resta un appuntamento irrinunciabile - dice Maria - . Trova gli amici e le amiche di sempre. Un ambiente amorevole. E poi non c’è una “trattoria” così a Bolzano. Lucia cucina benissimo...». I volontari Claudio Burchiellaro e Roberto Russi coccolano Dolores con il dolce e il caffé, lei sorride serena. Forse non li riconosce ma sa dov’è.
Cos’è oggi una famiglia se non questo? Darsi un mano, aiutarsi, mangiare insieme. Abbracciarsi quando qualcuno ci lascia. Si batte la solitudine. Si aprono inaspettate possibilità. Forse l’energia, l’amore che serve è semplicemente già qui, sul confine tra le piazze Frank e Pichler. Tra Ortles e Casanova. In questo posto.
Questo posto. Due stanze: la sala-dove si-sta-insieme, e la cucina. Nemmeno 30 metri quadri. Tutto arredato da loro, con quello che non usavano più. Lucia ha portato il forno, i frigoriferi, la piastra con i fuochi, gli scaffali ora zeppi di libri. La sala-dove-si-sta-insieme cambia pelle come un serpente, a seconda del giorno e dell’ora. Diventa una palestra per le signore che fanno ginnastica, una “trattoria”, unasala tè- caffè-biscotti, una sartoria, un laboratorio dove si fanno detersivi ecologici. Il mercoledì c’è la tombola. Il martedì il corso di cucina: una ventina di bambini e bambine armati di mattarello a fare i biscotti di Natale. Quasi tutti di Casanova. E anche le loro mamme, a imparare come si tira la pasta. «Siamo stati i primi, 40 anni fa, a fare lo sviluppo di comunità a Bolzano. Era un concetto del tutto nuovo», spiegano. All’epoca esisteva solo Ortles-Similaun. «Ma - racconta la presidente della Vispa, Laura Trentini - i problemi di integrazione c’erano anche allora». I giovani ignoravano la storia dei “vecchi”. I vecchi, i bisogni dei ragazzi. La soluzione è arrivata da un ventenne sveglio, Andrea Sacchet, classe 1974, che durante il periodo di Salghetti Commissario, ebbe l’idea di intervistare giovani e vecchi e farne un libricino dove ognuna si raccontava. «E così il muro è crollato».
Il confine immaginario. Oggi -per annullare il confine mentale con Casanova - la ricetta è sempre la stessa. «Passa dalla gestione collettiva degli spazi: gli orti, i parchi, i centri civici. Dai corsi di lingua per chi arriva da altri Paesi, dal progetto Liscià che coinvolge donne di diversa estrazione e provenienza». Dall’associazione Vispa nel 2013 è nata la cooperativa sociale OfficineVispa che a pochi metri da qui gestisce lo spazio giovani, dove si fa il doposcuola, si combattono la dispersione scolastica e l’esclusione sociale aiutando chi resta indietro a non perdere il treno. I bambini permettono di avvicinare le mamme, le mamme i padri. Nelle case Clima A di Casanova oggi abitano italiani, tedeschi, italiani di seconda generazione, migranti che parlano dieci lingue diverse e pregano in tre modi diversi. Classe media che sta bene e gente che sopravvive col sussidio. L’integrazione con Ortles è complicata ma possibile. Dice Elena Dobosz delle Officine: «Casanova ha un grande potenziale. Non è “solo” un dormitorio. Quello che manca davvero è un collegamento con il resto della città. I bus sono pochi. La sera siamo isolati». Ma è anche la città che non scende quaggiù. Che non viene a vedere. «Ma, certo, bisogna darle anche un motivo per arrivare fino qui...». Eventi, uffici, servizi. Gli spazi vuoti ancora da riempire. Dice un “millenial” nato e cresciuto a Casanova: «È ora di dare un senso a queste case». Giusto. E visto che oggi è giovedì, chiudi Facebook, Instagram, Tinder, e vai dalla Lucia a mangiarti una fetta di polenta.