la storia

Il senso della vita? Te lo spiega Marina dal bancone del Bar Mario

Il film sul Bar Mario di Stefano Lisci commuove, diverte e racconta Bolzano


di Luca Fregona


BOLZANO. Un film che commuove, girato con un occhio che guarda il mondo con garbo e dolcezza. Commuove, ma fa anche (e molto) ridere. Per cinque giorni, il «Bar Mario» di Stefano Lisci ha riempito la Sala 1 (la più grande) del cinema Capitol. Parla di un bar, della nostra città, di persone e sentimenti. È stato finanziato con il crowdfounding, una specie di colletta sul web, e ora sta per salpare verso i festival più importanti.

È la storia del bar Mario di Rencio, in via Brennero 22, sotto la funivia del Renon, sul confine coi Piani. Il bar - di fatto - è il salotto di casa di Marina Volpato, di suo marito Roberto, e del figlio Paolo. Dal bar si entra direttamente nel loro appartamento. E a un tavolo del bar pranzano e cenano. In mezzo ai clienti. Marina apre il locale alle 6.30 di mattina e tira giù la serranda alle 8 di sera. Chiude solo la domenica. «Per riposarmi - dice -. Ma non vedo l’ora che sia già lunedì, mi diverto troppo». Il bar Mario è una famiglia allargata. Dove tutti si conoscono e tutti si danno una mano. La clientela è “naturalmente” mista. Italiani e tedeschi. Giovani e anziani. Tanti bambini. Sul calendario dell’Alto Adige, Marina annota di anno in anno il compleanno di ognuno. E quando tocca a te, c’è sempre un pensiero. Magari uno scherzo, uno di quelli che ti fanno venire un colpo: la sigaretta che esplode, la penna-petardo, la brioche che sembra vera ma è di plastica. Il gioco è l’anima di questo posto. Un’anima ereditata dal padre di Marina, Paolo Fronza, che ha gestito il locale prima di lei. Quando parla del papà, a Marina si spezza la voce. La sua presenza è ancora forte. Un padre molto amato non lascia mai i suoi figli. Nemmeno da morto. E Marina lo sa. Lui, forte come un toro, mai un raffreddore, è morto all'improvviso nel 1975. Un infarto. Marina indica le foto alle pareti. Una bellissima all’ingresso. Lui stretto nel giaccone da marinaio, che scruta il mare per l’ultima volta prima del congedo. Sembra Corto Maltese. Undici anni di naia in «Marina» a cavallo della seconda guerra mondiale. Innamorato del mare e delle onde. Qui dentro tutto parla di lui e del mare. Un bar pensato a forma di nave. Organizzato come una nave. Con le finestre a forma di oblò, il timone, la campana di bordo e la chiglia. Quando Paolo Fronza torna a Bolzano nel 1945, il locale è già aperto. La famiglia si è trasferita alcuni anni prima da Trento. Al banco c’è la mamma Maria. Il bar si chiama come lei. Ma siccome sotto i Portici c’era già un “Caffè Maria”, Paolo decide di trasformare la “a” finale in una “o” e così nasce il Bar MariO. «La cosa divertente - racconta Marina - è che ancora oggi c’è chi crede che “Mario” esista davvero e mi chiede di passarglielo al telefono...». Alla morte della madre nel 1954, Paolo prende in mano il bar. È un omone con i baffi, e un cuore grande. Gli piace scherzare. Spesso mette un tavolino in mezzo alla strada che sale a Rencio, si versa un Cynar e imita Calindri. «Contro il logorio della vita moderna», dice con la voce impostata, e tutti si ribaltano dalle risate. Perché il suo bar lo vuole così: un’isola, un porto franco. Dove tutti si sentano a casa: i contadini di Santa Maddalena, i ferrovieri degli orti e gli operai che la sera rientrano ai Piani dalla Zona industriale. Gli studenti che giocano a biliardo, le mamme coi bambini e i militari in libera uscita della caserma Gorio. Alle pareti appende le banconote che i clienti gli portano da tutto il mondo. Ogni volta gli raccontano una storia legata a un viaggio o a un amore (inevitabilmente) finito. Un’abitudine che Marina porta avanti ancora oggi.

A metà degli Settanta, dopo la morte del padre, il timone passa a lei e alla madre Giustina, che tutti a Rencio chiamano Tina. Marina intanto ha conosciuto Roberto, occhi azzurri e battuta pronta. Sarà l’uomo della sua vita, nostromo e primo cuciniere. Chi ha visto il film lo sa: Roberto è burbero, timido, ma anche un uomo molto buono, ironico e affettuoso. «È fantastico e io lo adoro - dice lei ridendo -. L’unico difetto è che è affetto da shopping compulsivo. Compra tutto quello che gli capita a tiro». Ma molti sono regali per Marina. Come l’ultima collana fatta di bottoni che lei porta orgogliosa al collo.

Negli anni del blaun di massa, il Bar Mario è una delle tane preferite dagli studenti bolzanini. Per due motivi: ha il biliardo, ed è imboscato. E siccome al Bar Mario niente può essere normale: il biliardo pende. E allora tra i ragazzi invece di dire “facciamo blaun”, entra nel gergo «andiamo al “bar Pendenza”». La cosa è talmente risaputa che un giorno Marina si vede piombare nel locale un preside con codazzo di docenti alla ricerca dei "fuggitivi". «Le mamme a una certa ora chiamavano direttamente qui chiedendomi di spedire i figli a casa...».

Il 30 aprile 1981 nasce Paolo. I nomi a questo punto della storia sono importanti. Lei si chiama Marina perché il padre amava il mare. Il piccolo si chiama Paolo in omaggio al nonno che non c’è più. Dediche che rendono eterni i sentimenti. Paolo è un bambino speciale, ha bisogno di cure e attenzioni costanti. Un impegno che Marina e Roberto assolvono da subito con tenacia e dedizione. A 17 anni dopo un’operazione alla schiena, Paolo finisce sulla sedia a rotelle. I medici dicono che non potrà più camminare. Mai più. Ma una donna così non è una che si arrende. Marina, un giorno, tagliandogli le unghie dei piedi, si accorge che muove un dito. Si aggrappa a quel segnale. I medici le dicono che no, non c’è speranza. Ma lei insiste. Ore e ore di fisioterapia, di carezze, delusioni e incoraggiamenti. I clienti-amici la aiutano, reggono Paolo mentre cerca di mettere un passo dietro l’altro. E alla fine, dopo un anno, Paolo riprende a camminare. «Per festeggiare - dice Marina - siamo andati dal medico che ci aveva ucciso la speranza. Gli ho detto: “Vede, dottore?, avevo ragione io...”. È rimasto zitto».

La storia del Bar Mario, da 72 anni a Rencio

La storia del Bar Mario di Bolzano è diventata un film. Una storia che commuove e diverte. Dal 1945. Fotoservizio: Claudia Fornari. Leggi l'articolo

Paolo oggi ha sempre bisogno di Marina e Roberto, ma ha una serie di angeli custodi in tutto il quartiere che vegliano su di lui. Gli piacciono i bei vestiti, i profumi e le chiese. Ogni giorno esce da solo a farsi un giro in centro, ma c'è sempre qualcuno che controlla da lontano. Prima passa in rassegna i negozi dei Portici a cui - giustamente - chiude le porte che trova aperte. Poi va alla messa in Duomo, che recita a memoria. E se qualche cliente al bar ha tirato una bestemmia, dice un’Ave Maria e lo fa assolvere dal Signore. Il film racconta anche con estremo garbo il mondo che ruota attorno al Bar Mario. I clienti. Come Ester Valzolgher, la nota animalista sempre un po’ sulle nuvole che ritaglia gli articoli dell’Alto Adige per il suo sterminato archivio. Ester che da anni continua a “saltare” per la sigaretta esplosiva e addentare il croissant di plastica come fosse la prima volta.

O Josef lo spazzacamino taciturno come Charlot, che la telecamera di Stefano Lisci segue sui tetti di Rencio regalando - grazie anche alla splendida fotografia di Beniamino Casagrande - squarci di Bolzano inediti, poetici e intensi.

O Roland, il collezionista di bottoni che viveva in un roulotte sgangherata tra le campagne di Santa Maddalena. Robert che beve il caffè solo alle 1.30 precise del pomeriggio, mai un minuto prima e mai un minuto dopo. E che quando inizia l’ora legale lo prende alle due e mezza per tre giorni «perché il corpo si deve abituare». Roland, che dopo la fine delle riprese, è stato sfrattato. È arrivata una gru e gli ha portato via la “casa”. Ora dorme in un fienile senza luce e riscaldamento. «Ma - svela Marina - la sua preziosa raccolta di bottoni è custodita in una stanza segreta, di cui solo lui ha le chiavi e conosce l’indirizzo...».

Insomma, come dice Stefano Lisci, «non occorre andare in capo al mondo per trovare storie da raccontare. Basta guardarsi intorno».

Il bar Mario è accanto alla scuola di cinema Zelig. Da anni gli studenti chiedevano a Marina di girare un documentario. Ma Marina diceva sempre no. Poi Stefano l'ha convinta. Sardo di un paesino dal nome impronunciabile (Gonnosfanadiga), arrivato a Bolzano per studiare regia, Lisci si è piazzato al bar per tre anni. È diventato parte della famiglia, della ciurma. Un pezzo dell’arredamento. Marina a lui ha detto sì. «Anche perché - spiega lei senza amarezza - so che quando smetterò di lavorare, nostro figlio Paolo non continuerà. Allora mi metterò sul divano, guarderò il film e così mi sembrerà che il Bar Mario ci sia ancora. E sarò felice come lo sono ora».

Intanto, mentre Trump in tv minaccia di bombardare un dittatore psicopatico, è bello sedersi al tavolino con Paolo, Roberto e Marina, lasciarsi cullare dalle onde, bere un caffè, e tenere il mondo fuori.













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