Storia

La strage di via Rasella, il battaglione “Bozen” e la memoria che divide 

 La tesi di laurea del bolzanino Lorenzo Vianini analizza il difficile tentativo in Alto Adige di ricostruire quegli eventi senza strumentalizzazioni. La “censura” di Mascagni che non voleva tensioni con l’Svp


Lorenzo Vianini


BOLZANO. Pochi giorni fa è venuto a mancare Umberto Gandini, scrittore e giornalista: per l’Alto Adige aveva curato una serie di quattro articoli sui soldati del Polizeiregiment “Bozen” attaccati dai Gruppi di Azione Patriottica romani in Via Rasella. “Quelli di Via Rasella” è ancora oggi una testimonianza preziosa, come dimostrano le continue citazioni nelle pubblicazioni specialistiche, ma è anche un importante invito alla pacificazione su un episodio che ha a lungo diviso l’opinione pubblica sudtirolese.

Gli eventi del 23 e 24 marzo 1944 a Roma. Arruolato nel settembre 1943 poco dopo l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe della Wehrmacht e la creazione della Zona di Operazione delle Prealpi, il Polizeiregiment “Bozen” presta giuramento nel gennaio successivo ed i suoi battaglioni vengono inviati in diversi scenari dell’Italia occupata: i primi due in Istria e nel bellunese, dove parteciperanno alla guerra antipartigiana incendiando villaggi e fucilando civili; il terzo a Roma, dove il 23 marzo 1944 viene attaccato dai Gap. Il giorno dell’azione era frutto di una serie di coincidenze, ma non era affatto una data qualsiasi bensì il venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento, festeggiato poco lontano dai fascisti romani e i loro camerati del Terzo Reich.

Al passaggio della compagnia del “Bozen” il gappista Rosario Bentivegna innesca un esplosivo nascosto in un carretto delle immondizie. Per le conseguenze dell’esplosione moriranno trentatré soldati altoatesini, che le autorità naziste decideranno di vendicare con una sanguinosa rappresaglia. Viene deciso di uccidere “dieci italiani per ogni tedesco” senza aspettare alcuna indagine né fare appelli ai partigiani per consegnarsi, ma le esecuzioni saranno poi 335 perché alle Fosse Ardeatine vengono condotte cinque persone “di troppo”, per errore o per lo scarso valore della vita nella guerra ai civili dell’occupante.

Il dopoguerra. La questione del confine del Brennero aveva diviso le Resistenze di lingua tedesca e italiana sul futuro dell’Alto Adige tra ritorno all’Austria e permanenza in Italia. La contrapposizione si riproporrà durante le trattative della Conferenza di pace di Parigi e le reciproche accuse tra gruppi linguistici riguarderanno anche il “Bozen”. Il dirigente della SVP e sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau Friedl Volgger dedicherà un articolo a quella che definisce la “favola” del reclutamento volontario dei reggimenti di polizia, per ottenere la liberazione dei soldati ancora in arresto e dimostrare come i sudtirolesi fossero stati solamente vittime del nazionalsocialismo. Il governo italiano di Alcide Degasperi, come emerge dalla documentazione diplomatica, diffonderà invece una versione degli eventi delle Fosse Ardeatine in cui i soldati del “Bozen” vengono definiti autori della stessa rappresaglia e quindi feroci SS.

Le ricerche storiche hanno dimostrato come all’epoca dell’azione dei Gap la compagnia del “Bozen” colpita in Via Rasella non fosse stata né protagonista di azioni criminose, né avesse già ricevuto la denominazione di SS-Polizeiregiment come altre unità. I sopravvissuti del “Bozen” non parteciperanno poi alla rappresaglia perché il loro comandante, il maggiore Johann Dobek, consigliò di non affidarsi ai sudtirolesi per motivi tecnici legati alle esigenze del comando tedesco. Si trattava però di soldati addestrati e pronti ad essere impiegati, che marciavano per la città armati e con diverse bombe a mano attaccate alla cintola.

I miti e la narrazione. Sulla mancata partecipazione del “Bozen” alla rappresaglia si diffonderà negli anni un altro mito persistente: dalla fine degli anni ’60 il rifiuto del comandante sarà raccontato come una scelta dei soldati, che per motivi morali e religiosi non volevano essere coinvolti nell’esecuzione della vendetta. Una circostanza improbabile, ma molto attraente per quanti erano interessati ad una rappresentazione autoassolutoria della Seconda guerra mondiale, in cui l’obiezione di coscienza dei sudtirolesi avrebbe dimostrato la loro estraneità ai crimini del nazismo, nonché all’ideologia che li animava – il leitmotiv del “blasone immacolato della Wehrmacht”, per cui l’esercito si era limitato a eseguire gli ordini relativi alle esigenze belliche senza macchiarsi di crimini. Per lungo tempo la generazione di sudtirolesi che aveva servito nella Wehrmacht difenderà questo mito, isolando o delegittimando chiunque lo criticasse. Nella pubblicistica di lingua tedesca la narrazione degli eventi di Via Rasella viene principalmente affidata agli appartenenti a quella generazione, come Anton Bossi-Fedrigotti o Edmund Theil, testimoni diretti dei momenti successivi all’azione dei Gap perché distaccati a Roma presso l’ufficio di propaganda del Comando supremo del fronte sud-occidentale.

Secondo Leopold Steurer, al tentativo di discolpare i sudtirolesi portato avanti dalla stampa in lingua tedesca corrisponde una insufficiente distinzione tra le diverse unità nell’opinione pubblica italiana, soprattutto da parte dei giornali di tiratura nazionale che descrivevano il “Bozen” come reparto di SS. Quando nel 1977 Herbert Kappler fugge dall’ospedale militare del Celio si ripeteranno ancora queste semplificazioni, che convinceranno Umberto Gandini della necessità di un lavoro di avvicinamento. Il reportage “Quelli di Via Rasella” viene scritto non solo per rettificare gli errori dei colleghi giornalisti, ma per offrire un’occasione di pacificazione magari in occasione del trentacinquesimo anniversario, quando la messa per i caduti organizzata dai sopravvissuti del “Bozen” e la cerimonia per le Fosse Ardeatine potevano essere “due occasioni per incontrarsi, per tentare, se non di spegnere, almeno di lenire insieme il dolore di quelle antiche ferite”. La proposta di Gandini non troverà sostenitori, anzi la situazione precipiterà ulteriormente, con nuove accuse reciproche e attacchi feroci. Quando nel 1981 Friedl Volgger definirà “folli fanatici” i gappisti di Via Rasella le reazioni italiane non si fermeranno alla critica, ma porteranno ad un gesto concreto con la consegna di una medaglia al valore a Rosario Bentivegna.

L’importanza di essere critici

Il lavoro di Umberto Gandini porta nuova complessità, approfondendo il punto di vista dei sopravvissuti del “Bozen” senza limitarsi alla narrazione di un solo gruppo linguistico. Alla sua voce si affiancheranno negli anni successivi quelle di storici come Leopold Steurer, Christoph von Hartungen o Gerald Steinacher, che riporteranno il tema sui binari della storiografia. L’interesse della pubblicistica locale per il tema comincia però a diminuire proprio quando i media nazionali e internazionali se ne occupano per via dell’estradizione e la condanna di Erich Priebke, uno dei maggiori responsabili della rappresaglia.

Da una ricerca presso l’Archivio Storico del Senato sono emersi nuovi documenti che in parte spiegano questo minore interesse: negli anni ’90 l’incontro politico-amministrativo tra l’SVP e i partiti post-comunisti non può essere rovinato dalle divergenze su episodi ritenuti controversi, così l’ex senatore Andrea Mascagni interviene due volte presso Bentivegna per evitare lo scatenarsi di nuove polemiche. Nel 1994 evita che il partigiano denunci l’autore dell’ennesimo articolo diffamatorio nei suoi confronti, mentre nel 1998 gli consiglierà di darsi malato per non partecipare ad una serata su Via Rasella organizzata dal circolo culturale bolzanino “L’Orizzonte/ Der Horizont”. Tali iniziative, spiega Mascagni a Bentivegna, avrebbero inficiato la collaborazione instaurata con i rappresentanti della Resistenza locale in lingua tedesca – soprattutto Friedl Volgger, spesso in prima linea sul tema – e a livello politico con la SVP.

È mancato così un momento definitivo di reciproca comprensione e avvicinamento, anzi sui giornali locali continuano ad essere pubblicati testi in cui l’azione di guerra viene definita la follia di un partigiano. L’invito di Umberto Gandini non è stato raccolto finché era ancora in vita, ma è ancora possibile rimediare in memoria del suo grande impegno per raccontare la storia del “Bozen” in modo da promuovere la pacifica convivenza.













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