LA STORIA

Licenziata  dopo la lettera  a Salvini, «ora riparto da qui» 

Fare resistenza. Elizabeth Arquinigo Pardo, 29 anni, è “italiana” da 19 ma ancora non ha la cittadinanza. Dopo uno scambio col capo leghista ha perso il lavoro alla questura di Milano: oggi lavora al Cas di Appiano Mercoledì sarà a Vivi Maso della Pieve per raccontare il suo percorso


Sara Martinello


Bolzano. Si dice che le donne debbano affrontare un doppio esame, quando si tratta di dimostrare le proprie capacità. Ma se il tuo nome è straniero, se la nazionalità non è italiana gli esami si moltiplicano. Tanto da ostacolare l’ottenimento di un lavoro nel privato, da impedire l’accesso al settore pubblico, da tarpare le ali alla volontà di autodeterminazione. Elizabeth Arquinigo Pardo non ci sta più. Nata a Lima, in Italia da diciannove anni, la cittadinanza ancora non ce l’ha. Ha una laurea in Lingue per la cooperazione internazionale conseguita a Milano, parla cinque lingue (e ha studiato il latino), paga le tasse allo Stato. Ma non può votare né seguire percorsi formativi post lauream all’estero.

Il suo nome è salito alle cronache lo scorso anno, quando Repubblica riprese una lettera aperta al ministro dell’interno Matteo Salvini con la quale la 29enne denunciava la dilatazione dei tempi per l’ottenimento della cittadinanza dettata dal cosiddetto decreto sicurezza. Il capo della Lega le rispose così: “Di certo serve più efficienza da parte dello Stato, ma anche meno furbetti da parte degli stranieri, aspiranti cittadini italiani, che penalizzano gli amici come te”.

Perso il lavoro di interprete alla questura di Milano, avviato un ricorso al tribunale di Como, Arquinigo Pardo oggi vive a Bolzano e lavora come operatrice sociale al Cas di Appiano. Dopodomani sera sarà alla casa di quartiere Vivi Maso della Pieve per presentare il suo libro “Lettera agli italiani come me”, dialogando con Ermira Kola di cittadinanza, dei percorsi e dei requisiti per ottenerla, dei limiti del non averla. E facendo luce sul risvolto più esasperante del decreto Salvini, il prolungamento dell’istruttoria.

Partiamo dall’inizio: che cosa l’ha portata in Italia?

Spesso semplifico, dico che erano motivi economici. In realtà i motivi erano puramente politici. Tra le lotte intestine tra gruppi terroristici che si trascinavano fin dagli anni Ottanta e il golpe del ‘92 si era configurato un decennio di forte instabilità politica. Mio padre lavorava per un’ottima compagnia. Era un buon lavoro, con un buon reddito e con ottime prospettive per la famiglia. Ma un terreno politico così sdrucciolevole, i conflitti armati, la consapevolezza che l’economia non si sarebbe rimessa in piedi e il fatto che le multinazionali non fossero viste di buon occhio spinsero una delle mie sorelle maggiori a emigrare, a provare a costruirsi un futuro in Italia, dove avevamo dei contatti. Entrò con un visto turistico, a ripensarci avrebbe potuto richiedere l’asilo politico. Nel ‘96 ottenere i documenti per il soggiorno non era facile, serviva denaro, mancava ancora la rete di informazione di oggi. Dopo parecchie peripezie e dopo la sanatoria che regolarizzò la sua posizione riuscì a fare il ricongiungimento familiare per mia madre, la quale a sua volta poi lo chiese per me e per la mia sorella più piccola. Avevo dieci anni.

Ha mai vissuto il conflitto interiore dei bambini nati altrove e poi emigrati, costretti a fare i conti con la xenofobia?

Da ragazzina poco. Me ne sono resa conto in età adulta. Quando alla prima riunione la tua superiore ti dice “Sono felice di non aver stracciato il tuo curriculum”, quando ti confessano che non si aspettavano che parlassi così bene l’italiano, è lì che ti scontri con la realtà. Nel tempo ho capito che il mio valore passava prima di tutto per la mia nazionalità. Arrivavano perfino a mettere in dubbio il valore della mia laurea. Oggi mi sento italiana e mi sento peruviana. Migrante “di prima generazione e mezzo”, mettiamola così, questa strana situazione di chi ha vissuto l’infanzia in un paese e gli anni dello sviluppo in un altro. E mi sento privilegiata, perché conosco gli aspetti di entrambe le generazioni.

La cittadinanza italiana l’ha richiesta ben dopo i dieci anni di residenza necessari. Perché?

Ho sempre visto questo percorso come qualcosa che dovevo fare da sola, pensandoci, senza automatismi. Ho voluto prima raggiungere un sentimento di appartenenza all’Italia. Ma serviva anche altro, i dieci anni non bastano, la conoscenza della cultura e della lingua non sono richieste. Servono le dichiarazioni dei redditi dei tre anni precedenti, e io a vent’anni studiavo, non avevo redditi da presentare. Una volta finito di studiare, nel 2014, ho iniziato a lavorare. Così nel 2017 ho potuto fare domanda.

Ma nel frattempo il decreto Salvini è diventato legge, e Lei ha scritto la famosa lettera.

Con la legge Salvini i tempi per l’istruttoria si sono dilatati enormemente. Forse per il 2021, se va bene, avrò la cittadinanza italiana. Ho scritto quel testo, ricondiviso fino ad arrivare alle pagine di Repubblica, perché ero stufa della visione emergenziale delle migrazioni. Si parla solo di sbarchi, di numeri. I migranti non hanno nomi, non si sa dove finiscano. Si ragiona per tifoserie, per capitani, e una volta trovata una capitana da opporre al capitano, fermo restando il coraggioso ed encomiabile lavoro di Rackete, la narrazione si esaurisce lì, nella tifoseria. E nessuno parla del prolungamento dell’istruttoria! Secondo me è questo che avrebbe dovuto far scattare la sinistra, o i beniamini dello ius soli. Intanto nessuno sa più nulla di queste persone che hanno affrontato una traversata verso l’ignoto. Finiranno in un centro d’accoglienza virtuoso, che riesca a fornire loro un sistema d’integrazione di qualità, o finiranno nei campi di pomodori? O finiranno sulla strada? Quale tipo di integrazione vuoi offrire alle persone, se per avere il diritto di voto queste devono aspettare come minimo 14 anni?

A febbraio, dopo lo scambio con Salvini, Lei è stata licenziata dalla questura di Milano. Che cos’è successo?

Sembra che dal Viminale fosse arrivata una segnalazione, una direttiva ministeriale ad personam, che mi esonerava dall’incarico. A provarlo, un documento somministrato ai miei colleghi e non a me, una dichiarazione sostitutiva con cui attestare di non svolgere attività di natura politica che potesse confliggere con la posizione ricoperta.

Così con l’avvocato Andrea Maestri ha presentato ricorso al tribunale di Como. Com’è andato?

Al momento posso solo dire che non vedo l’ora di concludere questo percorso. Mi considero cittadina italiana e tengo molto al principio di uguaglianza, formale e sostanziale, contenuto nella Costituzione. Le ingiustizie devono essere combattute, devono essere vinte. Ho ricevuto tanti messaggi da persone ritrovatesi nella mia stessa situazione e che avevano gettato la spugna, o da chi per rimanere in Italia dipendeva dal lavoro. Per me non è così, e quindi non sono stata zitta. Mi è costato il lavoro a Milano, ai colloqui tutti si chiedevano perché mai fossi stata licenziata dalla questura. Non mi è neanche stata data una lettera di referenze. Per fortuna alcune amiche mi hanno parlato di Volontarius, così da maggio vivo a Bolzano e lavoro al Cas di Appiano come operatrice sociale. Ci sono 32 ospiti, dai 20 ai 35 anni, generalmente impegnati in percorsi formativi o lavorativi mirati. Alcuni stanno pensando di iscriversi all’Unibz.

Lo scorso ottobre ha scritto “Lettera agli italiani come me”, in cui parla anche dei limiti del non avere la cittadinanza.

Sono ostacoli già pronti, di quelli per la cui rimozione nessuno ha mai fatto nulla. Per esempio, io non posso candidarmi per un impiego in un ente pubblico o in un’agenzia europea. Non posso neanche votare per le amministrative, sebbene sia tassata non posso scegliere i miei rappresentanti. La circolazione tra Stati è limitata. È una vita limitante per persone nelle quali questo paese ha investito.

“Lettera agli italiani come me” sarà presentato dall’autrice Elizabeth Arquinigo Pardo e da Ermira Kola mercoledì 24 luglio, alle 20, a Vivi Maso della Pieve (via Maso della Pieve 60/A, Bolzano). Entrata libera.

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