TRENT'ANNI FA

Lino Nolli, nel lager per il no al fascismo e poi l’impegno per la donazione 

E' stato tra i fondatori dell’Avis Alto Adige e instancabile donatore fino allo stop dopo un infarto. L’esperienza durissima nei campi di concentramento in Germania. «I tedeschi mi hanno catturato a Malles. Le gente puntava il fucile e ci sputava»


Alberto Faustini


C’era una volta Bolzano. Ripubblichiamo la testimonianza rilasciata nel 1991 al nostro direttore Alberto Faustini da Lino Nolli, uno degli storici fondatori dell’Avis Alto Adige, con un numero altissimo di donazioni, premiato anche con la Croce d’Oro. Ma Nolli è stato anche un Imi, un internato militare, uno dei 600 mila soldati italiani che finirono nei campi di prigionia tedeschi per essersi rifiutati di aderire alla Repubblica sociale. Lino Nolli è scomparso a 80 anni nel marzo 2002. Se volete rileggere una storia, scriveteci a: bolzano@altoadige.it

****

C’è la bontà nei suoi occhi. E della bontà, Lino Nolli, è una sorta di emblema. Per gli oltre 40 anni di vita che ha dedicato all’Avis, certo. Ma non solo. Le fondamenta della sua casa della bontà sono fatte d'altruismo vero. E lui, quando s'è trattato di dare una mano, non s’è mai tirato indietro. Né in famiglia, quando ragazzino s'è messo a lavorare pur di procurare il pane ai suoi cari. Né nel lavoro, in quelle Acciaierie che in lui hanno trovato un operaio bravo e fedele. Né nei campi di concentramento, dove, grazie all'arte del sabotaggio, ha condotto una piccola lotta per la libertà. Né nell’Avis, il suo castello incantato dove lavoro duro e dedizione costante sono da sempre compagni fedeli e insostituibili. Nemmeno un infarto è riuscito a fermarlo. Lino Nolli, da quel triste giorno, ha smesso di donare sangue (quando ormai aveva già superato da tempo la boa delle cento donazioni) ma non di dare se stesso, il suo tempo libero, la sua esperienza. Settant’anni (nel 1991,ndr) , sposato, due figlie, Lino Nolli è uno dei fondatori della sezione bolzanina della Associazione italiana volontari del sangue. Ma è anche maestro del lavoro e cavaliere ufficiale. Non ama le luci della ribalta. E le foto che pubblichiamo in questa pagina sono praticamente le uniche che gli amici, in tutti questi anni, hanno saputo strappargli.

****

Non me la ricordo nemmeno. Ci sono nato, in Lombardia, ma ho lasciato quella regione a meno di tre anni, quando i miei si sono trasferiti a Bolzano.

In Alto Adige, papà e la mamma, sono arrivati per caso. Sono passati di qui nell'estate del 1922 e papà, che a Cremona lavorava in un'azienda simile, per pura curiosità andò a visitare la Schulze Pollmann. Sì, la fabbrica di pianoforti. Ebbene, gli offrirono un lavoro. Ci pensò su un po’ e decise di accettare e di trasferirsi, con tutta la famiglia, in questa terra.

Dunque - dice Lino Nolli con un sorriso -, eccomi qua.

Nel marzo del 1923 Bolzano era poco più che un paesone e noi andammo ad abitare in via Mendola. Il mio primo ricordo è legato proprio a quel periodo: a quando i tedeschi stavano costruendo il vecchio monumento della vittoria. Ricordo ancora lo zoccolo di marmo nero. Nel 1928, giorno dell'inaugurazione, ero vestito da balilla e, con altri ragazzini, distribuivo alla gente i giornali che parlavano di quel monumento.

Ci tuffavamo nel Talvera

Nel 1928 ci siamo trasferiti in viale Venezia. E abbiamo scoperto il Talvera. Noi ragazzini giocavamo nel fiume. Ci facevamo puntualmente il bagno e, più di una volta, per dissetarci, ne abbiamo bevuto l’acqua.

Al di là del ponte Talvera, allora, c’era il dazio. E per entrare in città bisognava fermarsi a pagare.

Dopo le elementari, a Gries e poi alla scuola Regina Elena, oggi Dante Alighieri, mi iscrissi all'istituto tecnico industriale, che a quei tempi era in piazza Domenicani, dove oggi c’è il conservatorio. Nel 1935, però, mio padre si ammalò. E spettava me, essendo io il più vecchio, andare a lavorare.

Decisi di fare il manovale alla caserma Huber. Quel lavoro aveva molti svantaggi, ma anche un vantaggio considerevole: si guadagnava bene. E per me, in quel periodo, guadagnare era importantissimo. Cambiammo ugualmente casa - proprio per motivi economici - e ci spostammo in una, molto più piccola, vicino alla Stella d’oro. Studiavo ancora, per diplomarmi da privatista. Fu un periodo molto duro. La sera, finito il lavoro, andavo a raccogliere legna per il fuoco. Poi mi mettevo a studiare. E spesso mia madre era costretta a svegliarmi perché, alzando gli occhi dai ricami, scopriva che mi ero addormentato sui libri. Sono riuscito a diplomarmi e nel febbraio del 1938 mi hanno assunto alle Acciaierie, dove sono rimasto 45 anni, salvo il periodo del militare.

La prigionia

Un periodo in verità non facile. Sono partito nel 1941 e nel 1943 mi hanno fatto prigioniero. Ricordo con angoscia quel giorno. Il 9 settembre, a Malles Venosta, le persone che fino al giorno prima erano riuscite a vivere grazie a noi - penso ai commercianti, ma non solo - avevano il fucile in mano e ci sputavano. Da allora non sono più tornato a Malles. Non ce l’ho proprio fatta. Una volta arrestati ci hanno portato nei campi di concentramento: sono stato a Danzica, a Berlino, a Stettino, ad Amburgo. Ci facevano lavorare. Io facevo il saldatore elettrico, ma pensavo, più che altro, a fare il sabotatore. I tedeschi mi costringevano a riparare motori di aerei e a saldare pezzi di sottomarini. E io pensavo soprattutto a lasciare punte di trapani nei motori e a gettare in mare o nella sabbia gli elettrodi. Finita la guerra, tornai a Bolzano. Mi diedi da fare all’interno del Comitato di liberazione nazionale e presto ripresi anche a lavorare alle Acciaierie. Nel 1943 avevo lasciato una bella città. Nel 1945 ho trovato una Bolzano distrutta. Sempre bella e suggestiva, ma ridotta, in alcuni quartieri, ad un ammasso di macerie. Nel 1945 mi sono sposato, con una piacentina. Ho due figlie, una direttrice degli asili di via Rovigo, l’altra segretaria dell'Avis da 25 anni, e... una vedova bianca. Sì, mia moglie è chiamata proprio così. Perché io ho sempre dedicato tutto il mio tempo libero all'Associazione volontari del sangue e lei si è abituata, tanto per fare un esempio, ad andare in ferie con due amiche. Loro sono vedove. Lei, ripeto, è una vedova bianca.

Alle Acciaierie ho fatto sempre il saldatore elettrico. E grazie alle Acciaierie sono diventato maestro del lavoro, cavaliere e, da qualche tempo, cavaliere ufficiale. Ancor'oggi faccio parte del direttivo dei Maestri del lavoro e di quello del gruppo anziani delle Acciaierie.

Ma tutto questo, per me, non è nemmeno lontanamente importante come l’Avis. All’associazione volontari del sangue ho dato tutto. L’Avis è la mia vita. Una parentesi bellissima, che è ancora aperta.

Nel 1950 il professor Settimi lanciò l’idea dell’associazione e iniziò a cercare volontari. Scotto, che lavorava alle Acciaierie e che era amico di Settimi, mi cercò. E io convinsi altri otto lavoratori a donare il sangue. Di lì a poco coinvolgemmo anche cinque operai della Lancia. In quei giorni nasceva l'Avis. La presidenza è stata subito affidata a Settimi. Il professor Casanova, per un breve periodo, ne è stato il vice, mentre Giacomo Zorzan fu il primo segretario.

Abbiamo iniziato subito a darci da fare. I donatori sono ben presto diventati 26. Poi 86 e sempre di più, fino ad arrivare ai 6 mila di oggi. Ancor'oggi la mia gioia più grande deriva dalla nuova iscrizione di soci. E il più grande dispiacere, di contro, è stato quando mi hanno detto che non avrei più potuto donare sangue. È stato nel 1975, il 12 ottobre del 1975. Il giorno del mio infarto.

Dal 12 ottobre ho deciso di uscire dall’Avis. In realtà lavoro qui ancora ogni giorno. Ma sono uscito dal consiglio direttivo, ho lasciato l’incarico di segretario e non partecipo alle cerimonie ufficiali. Ho deciso di abbandonare tutto questo perché, non potendo più donare il sangue, non me la sento di essere nel direttivo.

Lavoro ancora con gioia

Comunque, lavoro sempre per l’Avis. E da quando sono in pensione, ovvero da nove anni, passo qui un mucchio di ore ogni giorno. A volte salto il pranzo. Spesso anche la cena. Qui c’è un mucchio da fare e io do molto volentieri una mano. Anzi, do tutto il mio tempo libero. Con gioia.

 













Altre notizie

Attualità