il personaggio

Magnago “privato”: la bocciatura, la gamba persa e l’amore per Sophia 

«Sono nato a Merano nel 1914, ma già l’anno dopo ci trasferimmo a Bolzano, in via Brennero. Ricordo la ritirata dei soldati  austriaci nel 1918, mi impressionò molto». La laurea a Bologna in giurisprudenza, il servizio militare a Palermo, l’opzione e la Wehrmacht


ALBERTO FAUSTINI


C’era una volta Bolzano. Ripubblichiamo la testimonianza rilasciata nel 1991 al nostro direttore Alberto Faustini da Silvius Magnago, presidente della Provincia autonoma di Bolzano dal 1960 al 1989, padre nobile del Pacchetto, scomparso nel 2010 a 96 anni. Se volete rileggere una storia, scriveteci a: bolzano@altoadige.it

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ALBERTO FAUSTINI

Se l’Alto Adige dovesse essere trasformato in volto, la faccia sarebbe probabilmente la sua. Quella di quest’uomo che a 77 anni (nel 1991, ndr) ha tutto fuorché l’aspetto del pensionato. Uomo senza compromessi, Silvius Magnago. O lo odi - e molti italiani certo non gli vogliono un gran bene - o lo adori, ed è il caso dei tedeschi, che ne hanno fatto una statua vivente, un simbolo. Insomma: non ci sono mezze misure. Magnago o ti va o non ti va. Lui lo sa. Anche se si ostina a ripetere che nella sua lunga carriera di amministratore ha sempre tentato di non scontentare nessuno. È stato considerato una vittima, un attentatore, un burattinaio, un perseguitato e un persecutore. Eternamente aggrappato alla fune della coerenza, non si è mai scomposto. Una delle sue grandi forze è questa. E lo ammette: «Non ho mai fatto capire quali siano i miei punti deboli. Ho tentato di conservare la stessa espressione di fronte a qualunque cosa». È nato politico. Un politico cresciuto - e si vede - tra i militari: alla scuola ufficiale di Palermo, tra i Granatieri di Sardegna a Roma, e, dopo aver optato per la Germania, nella Wehrmacht. Bolzanino da sempre, Magnago si racconta quasi con gioia. Ammette di essere stato bocciato alla Maturità, ricorda la sua infanzia in salita, si sofferma sulla sua attività militare. A volte pare quasi di scoprirlo emozionato mentre gesticola e s’infervora senza mai perdere il filo. Ma lui nasconde tutto. Quando il racconto potrebbe commuoverlo passa ad altro. Parla poco di politica e molto di vita. Di una vita alla quale oggi, come quando, in Russia, lo consideravano spacciato, è, come dire, molto affezionato e attaccato. La vita politica di Magnago è per tutti un libro aperto: vice e poi presidente della Svp, è stato consigliere comunale a Bolzano (vice sindaco e capogruppo Svp), ed è stato consigliere provinciale e regionale dalla prima legislatura, presidente dei due consigli e, per oltre 28 anni, della giunta provinciale di Bolzano.

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Sono nato in una villa - ricorda Silvius Magnago -: Villa Marchetti, a Merano. Era il febbraio del 1914 e a quei tempi la provincia di Bolzano faceva ancora parte dell'Impero austroungarico. Mio padre, che si chiamava come me e che era nato a Trento, era giudice in Pretura. La mamma era invece austriaca, originarla del Vorarlberg. Passava le ferie a Merano. Ed è in questa città, dove è nata anche la mia sorella più grande, che è sbocciato il loro amore. Abbiamo lasciato quella città molto presto, nel 1915, quando papà, promosso consigliere, si spostò al Tribunale di Bolzano. Andammo ad abitare a due passi dall’attuale sede della Svp, al numero 4 di via Brennero. I miei primi ricordi sono abbastanza tristi: la fame, gli allarmi notturni, le prime incursioni, i sorvoli. Nel 1918 ad ogni allarme scattavamo in piedi e fuggivamo in cantina. Ed è nel novembre di quell’anno che, dal balcone della cucina, ho assistito a un fatto che allora non riuscivo a spiegarmi: la strada del Brennero era intasata, piena di carri, di cavalli e di artiglieria e gli austriaci si ritiravano. Dopo pochi giorni, c’è stata l'annessione all’Italia. Mi ha colpito molto, quella ritirata. Di quei tempi ricordo anche le grandi ciliegie che rubavamo di nascosto e le corse con i bambini che abitavano nella nostra casa. Frequentavo le elementari tedesche, in piazza Domenicani, dove poi è nato il Liceo Carducci. Ma dopo la terza la situazione è cambiata e ho frequentato scuole italiane, le Regina Elena, che oggi si chiamano Dante Alighieri. Cos’era successo? È presto spiegato: papà, che nel frattempo era diventato pretore capo, temeva, come tutti i giudici assunti dagli austriaci, di essere trasferito a Sud e quando gli chiesero come mai, lui che era un magistrato, mandava i figli in scuole tedesche, decise di spostarmi. E ho dunque preso per un lungo periodo lezioni private d’italiano da una trentina, una certa signorina Bezzi. Sono poi tornato in piazza Domenicani, dove, nel frattempo, si era spostato il Ginnasio. Nel 1927 mio padre è stato trasferito a Milano. Trasferimento che ha però rifiutato, decidendo, con 29 anni di servizio nella giustizia, di andare in pensione. Ma di lì a poco si è messo a fare l’avvocato.

Quell’amara bocciatura.

Alla Maturità, la prima volta, mi hanno bocciato. M’è andata bene l’anno successivo. Ma vi assicuro che in quegli anni quell'esame era davvero duro. Si portavano tutte le materie e le domande potevano riguardare qualsiasi anno. All’Università, a Bologna, ho fatto onestamente meno fatica. Mentre facevo Giurisprudenza ho tatto il servizio militare e dunque, per avere il libretto delle frequenze firmato dal professore, dovevo dare una mancia al bidello, usanza che allora io proprio non conoscevo. Ero alla scuola allievi ufficiali di Palermo. Appena arrivato là, fors’anche in considerazione del mio metro e 86 d'altezza (nella Wehrmacht, dove la precisione era fondamentale, mi dissero che ero alto 1.85 e mezzo), mi nominarono capo-camerata. E fu subito dura. Arrivato a Palermo dopo un viaggio di due giorni (in piedi!), una volta entrato nello stanzone, malgrado un assalto di cimici, mi addormentai. Risultato: sono stato “condannato” e ho passato la prima notte in cella, al freddo. Poi è andato tutto bene, eccezion fatta per un incidente capitato a un ragazzo del mio gruppo, un piemontese che durante una marcia ha salutato una ragazza. Molti considerarono quel gesto un’offesa gravissima, ma io e altri soldati settentrionali riuscimmo a convincerli che da noi era normalissimo guardare una ragazza.

In virtù della mia altezza sono poi passato nei granatieri di Sardegna, a Roma. Quand’ero ufficiale di picchetto, per la mia precisione e perché controllavo ogni cosa, ero il terrore della caserma. Nel ’38, ai tempi del patto d'acciaio, da granatiere ho assistito, nella stazione di Roma, all'incontro tra Hitler e Mussolini. E in quell’occasione Mussolini ci fece mettere sull'attenti e fare il presentat arm due volte, per mostrare a Hitler la nostra abilità. Nel 1939 ho deciso di optare per la Germania. E' stata una scelta difficile. Mio padre, mia madre e la sorella maggiore avevano infatti deciso di restare italiani. Il mio fu un gesto di reazione. Optai perché non mi andava la prepotenza del fascismo e perché mi dava fastidio che ogni giorno tentassero di capire che lingua si parlasse a casa mia. C’erano anche eccezioni, e non posso dimenticare che alcuni impiegati trentini parlavano sottovoce in tedesco con quegli utenti che altri impiegati cacciavano invece via perché non conoscevano che il tedesco.

M’ha salvato la voglia di vivere

Nel dicembre del 1942, l’arruolamento nella Wehrmacht. Esattamente un anno dopo, quando comandavo la compagnia al ponte di Nikopol sul Dnjepr, mi hanno colpito con una granata. Non mi avevano dato speranze e anche per questo convocarono mia moglie (mi ero sposato il 18 ottobre del 1943 con Sophia Cornelissen, originaria di Essen, conosciuta a Roma, dove io ero in servizio militare e lei insegnava tedesco): volevano che mi vedesse prima che io morissi. Vederla, a Varsavia, mi ha dato una forza immensa. Mi hanno amputato una gamba, ma ho ritrovato la forza e la voglia di vivere. E passando da un lazzaretto all’altro, da Varsavia a Francoforte, da Vienna a Innsbruck, sono riuscito a sopravvivere fino al termine della guerra. Tornato a Bolzano ho deciso di non buttare il fucile nel granaio. Ovvero di non smettere di impegnarmi. Cercai di raccogliere i reduci (27 mila sudtirolesi, di cui 8 mila caduti, svolsero il servizio militare con la Wehrmacht) e decisi di entrare politica. Nel novembre 1945 mi sono iscritto alla Volkspartei, che era fondata da poco, e il partito mi ha mandato subito all’ufficio assistenza post-bellica in rappresentanza delle vittime di guerra. Ho lavorato lì per qualche tempo, in perfetta armonia con un avvocato italiano. Poi sono diventato vice presidente e quindi presidente del partito e ho dedicato la mia vita alla politica, in consiglio comunale, provinciale e regionale. Ma questi sono episodi noti. Quello che posso dire è che in politica ho subito delusioni, ma ho avuto anche soddisfazioni: l’adunata di Castel Firmiano, ma forse è meglio chiamarla la manifestazione di Castel Firmiano, e l’approvazione del Pacchetto. In politica, quando una cosa non andava bene, ho sempre sofferto personalmente. Ma... forse ha ragione Andreotti quando dice che il potere logora chi non ce l’ha. Ho tentato di non espormi troppo, essendo contemporaneamente presidente della giunta provinciale e presidente di un partito, ma ho sempre tentato di difendere tutti.

Mentre racconto un po’ la mia vita non posso però fare a meno dì raccontare un episodio relativo alla mia laurea in giurisprudenza. Qualcuno ha detto che ho fatto una tesi razzista. La verità è che nel 1940 il professore di diritto penale, sapendo che conoscevo bene il tedesco, mi propose di preparare uno studio sulle leggi razziali nella legislazione nazionalsocialista raffrontate con quelle dell’era fascista. Tutto qui. E mi piace ricordare che andai alla discussione finale senza camicia nera. Il professore mi disse che era obbligatoria e che senza non avrei potuto laurearmi. Gli spiegai che avevo da poco optato per la Germania e che dunque non consideravo giusto indossare la camicia nera. Alla fine capirono e mi lasciarono discutere la tesi.

Oggi come oggi il tempo libero non è ancora molto, ma quando c’è lo dedico alla lettura dei giornali (un giorno spero d’avere il tempo di leggere tutti i libri che ho accumulato) e, soprattutto, alla mia villetta di Velturno, ai miei fiori, a qualche bagno, in una piscina di quattro metri per otto che per me e mia moglie è più che sufficiente. La villetta di Velturno è sempre stata per me una valvola di sfogo. Quando sono stufo penso a Velturno e scopro che la vita è un bene ancora prezioso. Per scoprirlo tento di continuare a vivere come se il tempo non passasse. Per questo, ad esempio, rifiuto gli autisti e guido da solo la macchina: per non avere la sensazione di essere un ferro vecchio. Perché in fondo la vita è sempre bella. Anche quando si ha una certa età.

 













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