L'intervista

«Manca il grano? Non sprechiamo la nostra terra» 

Il docente di Unibz Massimo Tagliavini: «Abbandonate le produzioni primarie  Troppo sbilanciati sull’import, serve una deroga alle colture estensive  La campagna va sfruttata meglio, non va vista solo come paesaggio»



BOLZANO. Quando inizia a mancare la farina ci aggrediscono i richiami ancestrali: guerre, fame, carestia. Allora uno si sveglia la mattina e va a svuotare i banconi dei supermercati. È accaduto. A Bolzano giravano immagini da incubo alimentare nei primi giorni dell’invasione.

Ora meno. Ma la farina resta un problema. E se manca, perché i granai ucraini e russi smettono di inviare il loro grano, la questione non si risolverà presto. Perché? «Detto semplicemente: i nodi sono venuti al pettine». E quali nodi, professore? «Facciamo poca produzione primaria nelle nostre campagne».

Massimo Tagliavini, docente della facoltà di Scienze e tecnologie della Lub, presidente dell’Associazione italiana delle società scientifiche agrarie e della Società di ortofrutticoltura (Soi), intende quella che sta alla base della dieta umana e animale, che riempie i granai e i forni del pane, che dà mangime alla filiera degli allevamenti, granaglie, frumento, mais. Che ci tiene in piedi. Come dicevano i nostri vecchi: con pane e companatico.

Negli ultimi decenni l’Alto Adige e l’intero Paese si sono affidati ad altri, all’importazione. E hanno puntato su produzioni più selezionate e su prodotti ad alto reddito, la frutta, il vino. Ma solo con questi non si campa. Ed ecco che la guerra, incidendo su territori che producono grano a tonnellate, ha interrotto questo flusso che ci pareva naturale. Mostrando carenze sistemiche.

Come se ne esce, professore?

In parte tornando indietro. All’aumento della produzione primaria. Molto, invece, osservando lo stato delle nostre campagne.

Partendo da dove?

Dal consumo del suolo. Si deve evitare di sprecarlo. E per farlo occorre sfruttarlo di più. Non abbandonare intere porzioni di terreno al nulla o alle periferie scomposte delle città. L’ho detto anche in Parlamento quando siamo stati chiamati a dare risposte alla crisi alimentare in corso: intensificare la resa dei terreni. Spesso, a questo proposito, abbiamo avuto un malinteso rapporto con l’idea di campagna.

Vuol dire una visione un po’ troppo immaginifica?

Direi paesaggistica. E uno sguardo sempre favorevole alle culture estensive e molto meno al fatto che coltivare la terra è economia, che chi la coltiva fa impresa e un’impresa deve rendere.

Altrimenti?

Si abbandona. E se si chiude una fabbrica magari ci sono gli strumenti normativi per riattivarla ma se chiude una fattoria, la campagna resta lì. Occorre, in parole povere, aumentare il consumo per ettaro, portare più tecnologia nelle campagne, osservarle come fonte di cibo.

E non sempre come un quadro naturalistico?

Non sempre. Siamo stretti da due condizioni: da un lato questa percezione poco diffusa del mondo agricolo come industria e dall’altro da protocolli molto stringenti sulle tematiche ambientali ma con molte contraddizioni.

È per questo che anche membri del governo hanno prospettato una deroga rispetto a certe normative ambientali, come il riposo dei terreni?

Le nostre regioni devono cercare di ridurre la dipendenza dall’estero sui prodotti primari, recuperare i terreni e anche guardare con altri occhi certe visioni. Ad esempio l’idea che lasciare incolti gli appezzamenti produca vantaggi ambientali. È importante continuare a spingere sulla sostenibilità ma forse oggi occorrerebbe maggiore flessibilità.

Intende che gli obiettivi ambientali sono oggi troppo ambiziosi e che la crisi in atto, sia alimentare che energetica, non consente di perseguirli con la stessa tempistica?

Dico che è bene perseguirli ma che oggi occorre fare una scelta: garantire la presenza nella distribuzione di beni di prima necessità, intensificando la produzione e lo sfruttamento dei terreni, o accettare che grano, mais, farina, mangimi possano mancare sempre più. E generare crisi alimentari. E in ogni caso che ci arrivino sempre e solo dall’estero. Aumentando la nostra dipendenza.

Occorrerà scegliere tra la realtà e gli obiettivi ambiziosi?

Occorrerà non stare fermi a ieri. Accettare lo stato di fatto e trovare contromisure: più terreni coltivabili, meno consumo di suolo soprattutto in aree periurbane, considerare la redditività di una azienda agricola non come una variabile indipendente, perché senza reddito l’azienda chiude e addio campagna coltivata. Che le stalle altoatesine e italiane dipendono dalla soia, dal mais, dal girasole e che se è tutto di importazione si rischia.

E ancora?

Incentivare il secondo raccolto stagionale, diversificare le monocolture.

E le mele altoatesine?

I nostri contadini sono molto ben disposti rispetto alla tecnologia. Si documentano. Guardando alla provincia, spesso si tratta di colture ad alto reddito. Ma si deve fare attenzione a non concentrare tutto su un prodotto. Faccio un esempio: in alcune valli, anche in quota, sta diventando interessante la ciliegia. Quando altrove in Italia termina la produzione, qui può proseguire. E trovare mercati. P.CA.













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