La testimonianza

Quelle migliaia di schede degli esuli arrivati a Bolzano 

Riccardo Dello Sbarba nel 1995 ha salvato dal macero l’Archivio della comunità giuliano dalmata Quei profughi costituirono la spina dorsale della classe dirigente italiana del dopoguerra nel capoluogo e a Merano


Riccardo Dello Sbarba


L’Archivio della comunità giuliano dalmata bolzanina è stato recuperato nel 1995, e poi donato alla città di Bolzano nel 2001, da Riccardo Dello Sbarba, oggi consigliere provinciale dei Verdi.

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Riccardo Dello Sbarba

BOLZANO. Ho raccolto l’archivio della Associazione degli esuli istro-dalmati di Bolzano nella primavera del 1995. Lavoravo allora nella redazione del settimanale “FF”, era in corso la campagna elettorale comunale. Mi colpì il fatto che entrambi i candidati, Giovanni Salghetti Drioli e Ermanno Füstöss fossero discendenti di profughi. Decisi dunque di fare un’inchiesta e presto arrivai alla famiglia Negri. Alfredo Negri era stato per decenni segretario del comune di Bolzano e contemporaneamente presidente dell'Associazione Istria-Dalmazia, di cui teneva accuratamente l’archivio. Nel 1995 l’associazione era ormai sciolta e la moglie, la signora Wally, stava per disfarsi di tutte le carte. Mi chiese se mi interessavano e io le presi in consegna. Avere in casa un archivio di questo genere comporta una grande responsabilità e anche un profondo senso di colpa. Io almeno la sentivo come una appropriazione indebita e privata di un bene pubblico. Ne ho parlato col sindaco di allora Giovanni Salghetti e abbiamo convenuto che la destinazione più opportuna sarebbe stata il costituendo archivio storico della città di Bolzano. L’occasione per una restituzione “solenne” (segno di riconciliazione tra la città e questo pezzo ancora sconosciuto della sua storia) è venuta nel luglio del 2001, nel corso del festival “Euromediterranea”, organizzato dalla “Fondazione Langer”.

Due aspetti rendono particolarmente interessante la vicenda degli esuli istriano-dalmati per la storia di Bolzano e del Sudtirolo.

Primo: questo gruppo di “immigrati” giocò un ruolo molto importante, perché quella che arrivò fu in molti casi un élite che nell’ immediato dopoguerra ricostituì gran parte della classe dirigente, soprattutto del capoluogo e soprattutto del gruppo di lingua italiana. L’immigrazione, tuttavia, non fu solo italiana: arrivarono anche parecchie persone di origine tedesca e austriaca, con interessi nel turismo, che in gran parte scelse Merano. Secondo: vi sono stupefacenti analogie tra la vicenda dei profughi e quella dei sudtirolesi tra il ’39 e il ’45. Entrambi attraversarono un’Opzione e in entrambi i casi si trattò di un tentativo (fallito in Sudtirolo, riuscito in Istria) di operare una pulizia etnica del territorio. Lo stesso Magnago comprese subito questa affinità e accolse bene gli esuli, stringendo con loro (ad es. col prefetto Benussi) un ottimo rapporto di amicizia.

Ho constatato che gli esuli hanno un rapporto difficile con il loro passato: non ne vogliono sapere, non ne vogliono parlare, alcuni non ne hanno raccontato la storia nemmeno ai figli. Da una parte ricordare diventa subito revanscismo o nostalgia, dall'altra forse è meglio dimenticare e ricominciare una nuova vita. Ma se questa storia fosse raccontata per bene, forse potrebbe favorire la riconciliazione tra il mondo italiano e il mondo di lingua tedesca, in questa terra dove ognuno conosce troppo poco l’altro.

L’archivio

Dentro il grande armadio in noce della famiglia Negri, impolverate, c’erano migliaia di schede anagrafiche, pacchi di corrispondenza, documenti dei Ministeri degli Interni e degli Esteri, della Repubblica Popolare Jugoslava, del Commissariato del governo di Bolzano. Tutto in ordine alfabetico, scritto nella calligrafia nitida del buon funzionario Alfredo Negri, classe 1904, per vent'anni dirigente dell’ufficio anagrafe del comune di Bolzano: lo stesso lavoro che aveva fatto a Fiume (Rijeka) ai tempi dell’annessione italiana.

Era questa dell'armadio, però, l'anagrafe che più amava Alfredo Negri: quella dei profughi scappati dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia tra il 1945 ed il 1947 e poi rifugiatisi a Bolzano a cercare un'altra vita. Un'anagrafe che Negri compilava nel tempo libero in qualità di responsabile a Bolzano della “Associazione Venezia Giulia e Dalmazia”.

Quanti erano? Lo schedario contiene solo i profughi censiti dopo il 1945. Un appunto del 1950 indica 472 capifamiglia più 1150 familiari in tutta la provincia. In realtà il mondo degli esuli arrivava probabilmente in Sudtirolo quasi a tremila persone.

Molti infatti erano partiti già dopo l’8 settembre 1943, altri ancora prima della guerra, come le tante persone di origine austriaca che a Fiume e Abbazia avevano alberghi e che avevano cominciato a spostare i loro affari a Merano. Altri infine, pur nati al di là dell’Adriatico, in qualità di funzionari pubblici erano stati trasferiti in Italia tra il 1919 e il 1945. Tra questi, c’era anche Giuseppe Salghetti Drioli, padre di Giovanni. Discendente di una delle più antiche famiglie di Zara (Zadar), papà Salghetti fu chiamato al Ministero delle finanze di Roma e lì fu raggiunto nel 1943 dal resto della famiglia, fuggita dai bombardamenti. Salghetti è stato a lungo “consigliere comunale” del “libero comune di Zara in esilio” che ha sede a Brescia. Anche Ermanno Füstöss, avversario di Salghetti alle elezioni del 1995, è originario di Fiume, ma suo padre fu trasferito già nel 1921 a fare il capo della polizia proprio a Bolzano subito dopo l’annessione. Queste, però, furono famiglie fortunate. Le altre invece, quelle scappate alla fine della guerra e censite nell’«archivio Negri», ebbero familiari uccisi e torturati, persero case e beni. Molti si trasferirono in Sudtirolo, e non fu un esodo del tutto “spontaneo”.

Il ruolo di Degasperi

Tra la fine della guerra ed il 1955 il capo del governo, il democristiano Alcide Degasperi, fece di tutto per attirare in Sudtirolo i profughi istriani e dalmati dando disposizione agli uffici del Ministero degli Interni di proporre loro Bolzano come prima meta.

Nella mente di Degasperi infatti, il destino del Sudtirolo e quello dei profughi si intrecciavano per molte ragioni. Già durante le trattative di pace, quando respinse la proposta degli alleati di tenere un referendum in Istria e Dalmazia (chiesto a gran voce dagli italiani di lì), lo statista argomentò che altrimenti si sarebbe dovuto concedere l'autodeterminazione anche ai sudtirolesi. Forse aveva già in mente di favorire il “travaso” tra le due zone. Gli italiani in fuga da Zara, da Fiume e dalle altre città istriano-dalmate erano particolarmente adatti all’“innesto”. Avevano vissuto a lungo in un clima asburgico e mitteleuropeo, erano plurilingui (italiano, tedesco, croato e spesso francese) e tutto, a Bolzano, ricordava la loro terra d'origine: il cibo, l’arredamento, la convivenza con gente diversa.

Ma erano anche persone fedelissime agli interessi nazionali dell'Italia, specialmente quelli arrivati in Istria e Dalmazia dopo il 1919, al seguito di Gabriele D'Annunzio.

Moltissimi maschi, tra il 1943 ed il 1945, erano entrati volontari nell'esercito della Repubblica di Salò, anche per difendere i propri beni. Fedeli all'Italia e perfettamente bilingui: Degasperi cercò di trasferirne quanti più poté, per ricostituire quella classe dirigente italiana che in Sudtirolo la guerra aveva in parte distrutto.

Una nuova classe dirigente

Non fu facile però convincere i profughi a restare quassù. Cercavano una nuova Heimat, erano abituati ad un’atmosfera laica, aperta, cordiale, mitteleuropea e molti di loro non riuscirono a sopportare il clima ostile che li accolse in Sudtirolo. Specialmente i più poveri, come quel gruppo di minatori istriani che, non trovando un nuovo lavoro, chiesero al viceprefetto di “poter presto emigrare in Australia". Restarono invece i benestanti e i piccoli borghesi: diplomati e laureati, insegnanti, pubblici impiegati, avvocati, notai, medici. Il governo riconobbe i loro precedenti impieghi e dispose la loro “riassunzione obbligatoria" negli uffici pubblici. A Bolzano i profughi venivano ospitati in strutture militari: la caserma Guella di Laives, una baracca militare ai Piani di Bolzano, un deposito dell'aeronautica a Salorno. Poi di loro si occupava il viceprefetto. E come viceprefetto Degasperi spedì a Bolzano, tra il 1947 ed il 1953, proprio un esule di Fiume, Oscar Benussi, padre di Ruggero, poi consigliere provinciale di Alleanza Nazionale. Fu lui l’uomo chiave, in quegli anni in cui l'autonomia ancora non esisteva e il viceprefetto aveva pieni poteri.

Laureato in legge a Budapest, Oscar Benussi era stato viceprefetto a Spalato (Split) dal 1941 al 1943 e poi fino al 1945 prefetto della Repubblica di Salò a Treviso. Subito dopo la guerra fu tra i fascisti “epurati", sospeso dal servizio e privato di stipendio e diritto di voto, finché nel 1947 lo Stato italiano gli riconobbe di aver agito “per la difesa degli interessi nazionali". Fu riabilitato e subito dopo De Gasperi lo mandò a Bolzano.

Qui anche Oscar Benussi si ricostruì una vita, mostrandosi uomo moderato: da giovane era stato membro della “Giovane Fiume", che chiedeva lo status di “città libera e porto franco" (contro il partito degli “annessionisti" dannunziani) e dunque non ebbe difficoltà a capire le istanze dei sudtirolesi. Frequentava le case dei Magnago e dei von Walther.

L'insediamento dei profughi lo gestì come una sacra missione.

E con successo, visto che numerosi posti di vitale importanza furono occupati dai suoi profughi. Vittorio Karpati, vicequestore di Fiume fino al 1945, divenne vicequestore di Bolzano. Il giudice Radnich, di Pola (Pula), presidente del Tribunale. L'avvocato De Vernier, di Pola, segretario provinciale della Croce Rossa. Il medico fiumano Leone Spetz Quarnari direttore dell'ospedale di Bolzano. Il funzionario di Zara Ercole Scopigno fu direttore degli uffici finanziari; Ladislao De Laszloczky, funzionario della Banca d'Italia a Fiume, diventò direttore della Cassa di Risparmio; il fiumano Rodolfo Sperber fu nominato direttore dell'azienda dei trasporti S.A.S.A. e presidente del Coni; Eligio Serdoz, di Fiume, capo dei boy scouts: il fiumano Giulio Karpati colonnello degli alpini di Bressanone; il medico Emilio Della Rovere, di Abbazia (Opatija), direttore generale della Cassa Malati; Onofrio Pardi, di Fiume, ingegnere responsabile del dipartimento Verona-Brennero delle ferrovie.

A loro volta, ciascuna di queste persone inserì quanti più profughi poteva negli uffici che dirigeva. Il fiumano Sperber riempì la S.A.S.A. di autisti e meccanici istriani. Sotto il direttore Spetz Quarnari l'ospedale e le strutture sanitarie si affollarono di medici dalmati, dentisti fiumani, farmacisti di Pola. Pattuglie di profughi entrarono all'Inps, nelle banche, nelle assicurazioni. Arrivarono in massa notai e avvocati (tra cui il cancelliere giudiziario Giovanni Dragogna da Pola, padre di Sergio Dragogna, noto avvocato di Bolzano), carabinieri ed ufficiali, barbieri, fotografi, sarti, albergatori e portieri di notte, commessi viaggiatori e tanti maestri e maestre, professori e professoresse (e qualche preside, come Tullio Walluschnig alle medie di Merano).

C’erano poi le industrie, e a questo pensava Ruggero Benussi, figlio di Oscar. Nell'esercito di Salò, Ruggero aveva comandato una speciale squadra di parà dalmati alle dipendenze dirette della Wehrmacht ed era sfuggito per poco alla fucilazione da parte dei partigiani. A Trieste aveva lavorato per gli angloamericani e lì era stato notato da Vincenzo Ventafridda, direttore delle Acciaierie di Bolzano, che lo aveva fatto suo segretario particolare. Da quel posto di comando nella zona industriale, Ruggero Benussi aprì le porte della Lancia, della Montecatini e delle Acciaierie ai profughi dalmati e istriani.

Il dalmata Ervino Katalinich, operaio alla Montecatini, fondò la “Bolzano nuoto" e creò con i profughi istriani la squadra cittadina di pallanuoto – il Lido di Bolzano diventò un punto fisso di ritrovo. L'avvocato Antonio Vio, primo podestà della “Fiume italiana" dopo l'annessione del 1924, venne a Bolzano trasferendoci anche altre sue attività – in Istria era conosciuto come uno degli esponenti di spicco della massoneria. A Merano si trasferì anche il deputato istriano Ossianich, che nel parlamento di Budapest aveva proclamato “l'italianità di Fiume" nel 1918.

Funzioni religiose e funerali erano celebrati da don Felice Odorizzi, che era fuggito da Pola con l'ultima nave degli esuli, il “Toscana”, su cui erano state caricate pure le tombe dei propri antenati. Per farsi i capelli c’era un barbiere di Spalato, che aveva il negozio in cima a via Dalmazia. I

profughi facevano capo alla “Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia" che aveva la sede in piazza della Mostra al numero 8 e stava aperta dal martedì al sabato. L'associazione curava le pratiche di riconoscimento dello status di profugo.

Promuoveva la costituzione di cooperative per la costruzione di case (furono realizzati più di 60 appartamenti, tra cui gli ultimi palazzi di Corso Libertà verso piazza Gries). Organizzava soggiorni estivi per i bambini, teneva i contatti col Commissariato del Governo, da cui riceveva contributi in denaro e pacchi alimentari a Natale e Pasqua.

Ogni anno venivano celebrati i santi patroni di Pola, Zara e Fiume. In queste occasioni il fiumano Mario Penso, farmacista a Selva Gardena, organizzava una cena di pesce con cento invitati. E poi c’erano i balli, le feste e le immancabili gite al sacrario militare di Redipuglia o alla casa di D’Annunzio al Vittoriale.

L’associazione ha avuto un massimo di 600 iscritti nel 1949 e ha cessato di vivere nel 1985. Molti esuli diventarono col tempo un importante bacino elettorale per la destra italiana, e non solo a Bolzano. Ma non era un destino scontato fin dall’inizio, anzi: molti di loro erano stati combattenti “dall’altra parte”, come i genitori dell’avvocato bolzanino Sergio Dragogna, una famiglia di partigiani istriani socialisti, incarcerati dai nazisti in campo di concentramento e poi espulsi.

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