l’intervista

Paolo Crepet: «L’empatia distrutta dai telefonini»

Il noto psichiatra oggi 25 novembre alle 21, all’Auditorium di via Dante, con la sua “Lezione di sogni”: «Non tolleriamo più la gioia e i successi altrui, anche di chi si dice di amare. La tragedia di Giulia ne è l’ennesimo esempio»
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Paolo Campostrini


BOLZANO. «Non tolleriamo più nulla…». Fa un lungo respiro Paolo Crepet. Questi sono giorni di grandi emozioni. C’è sempre il sorriso di Giulia a inseguirci in ore che sembrano tutte uguali. Poi continua: «Non tolleriamo la gioia altrui. I successi degli altri. Anche di chi si dice di amare. Ma continuiamo a tollerare l’intollerabile». Per lui intollerabile è il vuoto di emozioni, l’assenza di empatia ovunque. Di ascolto e di attenzione. «Sa quanto durano le cene in famiglia?». Intende statisticamente, professore? «Sì: tredici minuti. Poi arriva un sms, un whatsapp e i 13 minuti diventano nove. Crede che in nove minuti si possa guardare nel cuore dei nostri figli?».

Psichiatra, psicologo, Paolo Crepet sarà a Bolzano stasera ore 21 all’Auditorium con la sua “Lezione di sogni”.

E dove si dovrebbero guardare, i figli?

Chiedere semplicemente se sono preoccupati o no. Se soffrono. Magari per un sentimento non corrisposto. Figurarsi se si riesce a guardar loro nel cuore. È un dramma.

Cosa è un dramma?

L’incomunicabilità.

E invece pare che si sia sempre lì a comunicare.

Sì, col telefonino. Con qualcuno che non c’è. Di persona, intendo. E così non lo si guarda negli occhi.

Giulia aveva 22 anni. Come Filippo. Vuol dire qualcosa?

Che sono i nostri figli. Non ci vediamo perversione: ci riconosciamo. Vuol dire che non li si è ascoltati.

Intende Filippo?

Lui è l’esempio. I giovani uccidono le fidanzate perchè sembrano non tollerare la gioia altrui.

Quella di Giulia che si stava laureando?

In generale. Ma uccidono soprattutto perché nella vita non hanno mai ricevuto un solo no. Un vero no. E questo rende impreparati nei confronti dei fallimenti.

In questo caso è stato il no di Giulia alla loro relazione?

Buona parte delle responsabilità dell’ondata di violenza fra i ventenni, anche in situazioni che non si concludono così tragicamente, sta nell’incapacità delle famiglie di dire no, di punirli finanche. E nella totale assenza di empatia tra genitori e figli. Che è stata distrutta dai telefonini.

Non c’è lo spazio fisico per comunicare?

Sempre meno.

E quando c’è?

Non lo si usa. I genitori stanno più al telefonino dei figli. Tanti genitori vogliono essere amici, fratelli. Le madri si vestono come le figlie, imitano la loro gioventù. I padri vanno sui social e lavorano. Hanno sempre poco tempo da splendere. Difficile fare i genitori così. Dire no.

Cosa si dovrebbe fare?

Si sente mai in giro: “Tu sabato non esci”? No. Sempre meno. Come si fa ad elaborare un rifiuto in queste condizioni….

Lei, ovunque si tratti di discutere della questione, è sempre molto duro con gli adulti.

E con chi dovrei prendermela? Nasce tutto da loro, da noi.

Perchè le accade?

Attingo dalla mia esperienza. Da quello che vedo, che sento. Da quello che mi dicono giovani e adulti. Dal racconto della loro giornata. Non riesco ad arrendermi rispetto alla presunta ineluttabilità di questi atteggiamenti.

Mancano i valori?

Sono scomparsi i vecchi e non ne sono emersi di nuovi. E questo lo dico da laico non certo sul piano religioso. Come si fa a fare pedagogia, a insegnare se tutto sfuma, svanisce di fronte a questa deriva.

Che sarebbe?

Quella del sì. Sempre e a ogni costo. Anche di fronte a situazioni oggettivamente intollerabili. I ragazzi temono e non sopportano il rifiuto perchè non lo conoscono, non odono più un no. Ma gli adulti a loro volta temono i propri sensi di colpa se le pronunciano, quelle due lettere.

Come se ne esce?

Con un mio vecchio pallino.

Sarebbe?

L’empatia.

Vuol dire che invece l’abbiamo perduta?

Non la troviamo più. Non guardiamo agli altri con tolleranza. E al posto dell’empatia siamo circondati dalla sua sostituta: la solitudine organizzata.

Diversa dalla vera solitudine?

Diversissima. Ci fa paura. Perchè ci costringe a pensare. E se si è in due, ad affrontare un possibile dialogo. Così la organizziamo.

Cioè la riempiamo?

Esatto. Di telefonini, di parole di circostanza. Di ovvietà. Come quella dei genitori che dicono: sa, io sono proprio amico dei miei figli…

E gli adulti dunque che fanno?

Seguono le tendenze. Si affiancano a quelle dei figli. E in fondo sono contenti così.

Perchè dice che sono contenti invece che si accontentano?

Perchè se uno cerca l’empatia e dunque le emozioni non sa cosa trova. Le emozioni costano.

Che intende?

Che portano via tempo, che qualche volta fanno star male se non sono quelle che uno si aspetta. E così, in fondo, sono felici così, a non cercare dialogo ed empatia.

Dunque cosa fanno, cosa facciamo?

Risparmiamo sulle emozioni. Le teniamo lontane. Speriamo in fondo che siano poche, perché chissà mai che ci tocchi prendere una decisione che costa, un “no” che lascia il segno.

L’ha colpita la vicenda di Giulia e del suo assassino?

Vi ho ritrovato tratti molte volte individuati in drammi simili. O anche in vicende meno tragiche, con azioni che si sono fermate un attimo prima.

Cosa ha visto al fondo?

L’intollerabile. La gioia altrui è un macigno perché non la si trova nella semplice empatia nei confronti dell’altra. Non si tollera la gioia e non si tollera la propria infelicità per un rifiuto. Quel no era forse il primo che riceveva.

Cosa dicono in casi analoghi la maggior parte dei genitori?

La frase è: bisogna capirli. Forse perché non li hanno mai capiti. Non li hanno messi alla prova: posti davanti ad un vero diniego.

Mai vicenda analoga ha colpito così tanto. Un bene?

Ci siamo identificati. Anche nella normalità delle famiglie, del contesto sociale. Il rumore, il dibattito che ne derivano è una buona cosa. Giusto e condivisibile che ragazzi e ragazze inizino a riflettere in profondità su tutto questo.













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