Dal K2 a Vladivostok, le grandi imprese di Roberto Condotta 

Il filmmaker meranese. La sua macchina da presa è diventata il caleidoscopio della storia


Jimmy Milanese


Merano. Ha realizzato reportage di guerra, lavorando per i maggiori network nazionali e internazionali. Appassionato di montagna e cimeli di guerra, il filmmaker meranese Roberto Condotta ha vissuto un’intera vita dietro alla macchina da presa. Suo il miglior documentario sulla mitica prima spedizione sul K2 del 1954, ma nel suo archivio ci sono anche produzioni per i canali Leonardo, Discovery Channel e Marcopolo, in viaggi che lo hanno visto raggiungere i posti più sperduti della Siberia o villaggi indiani dimenticati dal resto del mondo.

Quando inizia questa sua passione per le videoriprese?

Ho iniziato facendo il maestro elementare, ma in estate scattavo fotografie per l’Alto Adige, quando a Solda conobbi Candido Daz, operatore della Rai che era stato in Vietnam durante la guerra. Mi colpirono il suo lavoro e la sua semplicità, lui, testimone della storia: quella che avrei inseguito per tutta la vita.

Dalla passione per le riprese a vera e propria professione.

All’inizio portavo i miei video in classe e allo stesso tempo imparavo il mestiere, anche facendo gavetta con maestri come Mario Deghenghi. Fu lui a chiedermi di portare il primo cavalletto, era la fine degli anni Novanta, perché allora funzionava così. Erano gli anni della trasmissione televisiva “Jonathan dimensione avventura” del compianto Ambrogio Fogar. Ero determinato a trasformare una passione in professione, e ci sono riuscito.

In quale modo?

All’inizio facevo filmati matrimoniali per Hubert “Bubi” Santa. Il primo con cui ho iniziato a lavorare. Nel frattempo, siccome facevo parte del Soccorso Alpino, ho deciso di portare la videocamera alle esercitazioni, perché mi interessava documentare l’avventura.

Quel connubio tra montagna, storia e videoriprese...

Sì. Ho cominciato a fornire immagini delle esercitazioni anche alle televisioni private, e il passo successivo fu semplicemente conoscere Wolfgang Tomaseth, l’operatore che allora accompagnava Reinhold Messner e Hans Kammerlander nelle scalate degli Ottomila. La mia carriera prese il volo quando Tomaseth mi convocò come secondo operatore per un documentario sull’Aiut Alpin.

Per quali televisioni ha lavorato?

Da quelle locali come VideoBolzano e Tca, ma anche per Rai, Orf, Zdf, Mediaset, Sky, o con Brando Quilici di Discovery Channel, oppure per History Channel in un documentario che raccontava alcune epiche battaglie sulle Dolomiti al tempo della Prima guerra mondiale.

La sua passione per la storia ritorna sempre nei suoi lavori?

Sì, in particolare per la vita del soldato in guerra, a prescindere dall’uniforme o dall’ideologia che ha sposato; per la sua quotidianità, con una predilezione particolare verso gli Alleati durante la Seconda guerra mondiale.

Quali considera i suoi lavori più gratificanti?

Uno dei lavori che ricordo volentieri lo realizzai nel 2004, dedicato alla prima salita in assoluto sul K2, datata 1954. Intervistai Compagnoni e Lacedelli, oltre ad alcuni sopravvissuti dell’impresa, ricostruendo la famosa vicenda delle bombole, prima che uscisse la versione ufficiale del Club Alpino che riportò la pace tra i protagonisti.

Che cosa racconta in quel documentario?

Sulla vicenda sono stati scritti libri e libri, addirittura si sono consumati processi tra i protagonisti. Nel documentario ho cercato di ricostruire una vicenda complessa che tiene banco ancora oggi. Di quella complicata missione storica rimane il fatto che un gruppo di italiani nel 1954 conquistò per la prima volta il K2, in un periodo storico delicato per la nostra nazione. Tra le altre cose, quella spedizione contribuì a confutare la teoria scientifica secondo la quale oltre gli 8 mila metri l’uomo non poteva sopravvivere a lungo.

Messner ha mai visto quel suo documentario?

Durante una diretta Rai alla quale partecipai, Messner dichiarò che il mio documentario sulla spedizione del 1954 era quello che meglio descriveva la vicenda legata alla questione bombole. Anni dopo, ho lavorato con lui in occasione delle riprese per un documentario di backstage sulla realizzazione di un suo film dedicato alla evoluzione dell’alpinismo.

Lei ha realizzato anche un documentario sullo sbarco in Normandia.

Non proprio, era il 2014 e in occasione del 70esimo anniversario dello sbarco ho seguito due rievocatori altoatesini che assieme ad altre centinaia di persone si sono dati appuntamento in Normandia per rivivere e in un certo senso ricostruire quell’impresa. Volevo entrare totalmente nella storia, per questo ho realizzato le riprese vivendo esattamente come se fossi stato un cineoperatore alleato dell’epoca.

Una passione, quella per la storia, trasformata in collezionismo.

Sì, nel corso degli anni ho iniziato a collezionare cineprese prodotte fino agli anni Cinquanta, alcune degli anni Venti. È interessante notare che da quell’epoca è cambiato completamente l’approccio tecnico alle riprese, ma sono sempre l’occhio dell’operatore e la sua sensibilità a fare la differenza, anche dopo l’arrivo del digitale e la possibilità di operare in modo pesante sulle immagini in fase di postproduzione.

Oltre che sulla storia, dove punta la sua videocamera?

Verso il sociale. Ad esempio, ho seguito un gruppo di medici italiani in un villaggio del Nepal, ai piedi dell’Annapurna, dove ho raccontato le difficoltà ad allestire un ambulatorio medico a due giorni di cammino dalla prima strada percorribile. Oppure in Sri Lanka, a sud di Colombo, ho documentato le violenze subite dalle bambine, ricoverate in un centro di recupero dove vengono aiutate a rifarsi una vita.

Perché questa virata verso il Sudest asiatico?

Perché ho una forte ammirazione per la spiritualità incontrata durante i miei viaggi in quelle aree. Ad esempio, a Dharamsala, nel nord dell’India, sede del governo tibetano in esilio, con la mia videocamera ho raccontato l’impegno dei tibetani nel tentativo di salvaguardia della loro cultura, minacciata dal governo cinese. Anche lì ho trovato storie di bambini, questa volta tibetani, inviati dai genitori in India, perché in Tibet oggi non è più possibile crescere secondo la propria cultura.

Lei lavora molto per le televisioni?

Sì, e questo mi permette di viaggiare. Come quando andai in Siberia, per realizzare una produzione per il canale Marcopolo. Raccontammo la Transiberiana in inverno, uno degli inverni più freddi degli ultimi anni, con punte di 58 gradi sotto lo zero. Poi, da Vladivostok, costeggiando la Cina e il fiume Amur, siamo risaliti fino al lago Baikal, raccontando la realtà dei villaggi più sperduti. Ad esempio, Birobidžan, città russa fondata nel 1931 che risulta essere la prima enclave ebraica sorta prima della nascita di Israele.

In foto la vediamo ritratto appeso alla parete con la videocamera in braccio.

Arrampicarsi è un po’ come realizzare un film dove ogni passo è un fotogramma che ti porti nel cuore per tutta la vita.

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