La zecca, tesoro del Duecento che affascinò tutto lo Stivale 

Da Merano alla Sicilia. Tutto nacque dalla volontà di smarcarsi dal divieto di battere moneta imposto dai principi vescovi di Trento Grosso e piccolo aquilino, Berner e Kreuzer: tra il 1258 e il 1477 in riva al Passirio si coniarono monete imitate dal Nord al Sud Italia


Jimmy Milanese


Merano. C’è una parte della storia medievale della nostra città che, in tempo di Mes, critiche alla moneta unica e fluttuazioni monetarie spesso incontrollate, riporta a un passato poco conosciuto ma per nulla irrilevante. Infatti all’incirca tra il 1258 e il 1477 a Merano vennero coniavano monete che ebbero un gran successo nel nord Italia, tanto da essere largamente imitate. Monete “meranesi” particolarmente preziose, ma almeno nei primi anni di vita alquanto “illegali”, si direbbe ora, anche se poi talmente ben fatte da scalzare per importanza i denari di Verona e rivaleggiare con quelle uscite dalla zecca di Venezia. Già, perché dove per anni ha vissuto la libreria Pötzelberger una volta sorgeva la prestigiosa zecca di Merano.

Una premessa storica.

Per capire come nacque l’avventura della zecca di Merano e comprendere a fondo l’importanza delle monete meranesi come prototipo di molte altre italiane occorre fare un breve passo indietro e immergerci negli avvenimenti che diedero vita alle officine monetarie dei conti di Tirolo. Nel 1258 il Tirolo venne sconvolto da un grande lutto, la morte di Mainardo I, conte di Tirolo, il quale aveva speso gran parte della sua vita a combattere il vescovado trentino. Mainardo I lasciò due eredi maschi, Mainardo II e Alberto II, i quali con la morte della zia Elisabetta nel 1256 si ritrovarono tra le mani tutti i possedimenti che il principe vescovo di Trento Aldrighetto di Castelcampo già nel 1241 aveva suddiviso tra Mainardo I e la di lui sorella Elisabetta. Invece di farsi la guerra, alla fine, nel 1268 Mainardo II e Alberto II decisero di dividersi i possedimenti. A Mainardo II andò quindi la contea del Tirolo.

Il riconoscimento di Rodolfo I.

È a questi due fratelli che si deve il merito di aver coniato nella zecca di Merano la prima moneta anonima conosciuta sotto il nome di “grosso aquilino”. Una moneta uscita quasi di nascosto, approfittando di una situazione caotica che tra il 1245 e il 1272 vide il Sacro romano impero privo di una vera e propria guida imperiale. Finalmente nel 1273 Rodolfo I d’Asburgo venne nominato re dei romani e un anno dopo concesse a Mainardo II il diritto della zecca, in un certo senso riconoscendo una situazione che di fatto andava avanti dalla metà del tredicesimo secolo. Da quel momento in poi, almeno fino al 1477, la zecca di Merano sfornò una serie infinita di monete, alcune di queste oggi esemplari estremamente rari e pregiati che ad averli farebbero la felicità dei molti numismatici presenti anche in città.

Il colpo di genio di Mainardo II.

Tutto nacque dalla necessità nel Tirolo di coniare monete multiple per adeguarsi alle monetazioni già presenti in Italia, nel tentativo di smarcarsi dal divieto posto dal vescovo di Trento, il quale impediva ai suoi vassalli di battere moneta. Il colpo di genio di Mainardo II fu quello di sposare nientemeno che Elisabetta di Baviera, vedova dell’ex imperatore Corrado IV, così da acquistare sufficiente fama alla corte reale da non dover temere la reprimenda dei vescovi trentini.

Tra le prime decisioni di Mainardo II, appunto, quella di riesumare la zecca meranese aperta dal padre e che già nel 1253 aveva coniato il Berner. Per portare a termine tale intendimento, Mainardo II chiamò in città alcuni importanti mastri fiorentini ai quali affidò il compito di coniare il grosso aquilino e il grosso tirolino, cioè le prime monete d’argento mai battute nell’area tedesca, cosa che fu possibile anche grazie alla riapertura delle miniere di sale e di argento di Hall. Mainardo II completò l’opera di autoaffermazione, sostenendo Rodolfo I d’Asburgo nella sua lotta contro il re Ottocaro II di Boemia, ottenendo per questi servigi l’elevazione alla dignità di principe imperiale.

Monete di valore.

Nel sistema di cambio di allora, quando molto si doveva all’onestà delle persone e alla capacità dei commercianti di riconoscere eventuali falsi, le monete meranesi erano accettate volentieri per gli scambi. Il grosso aquilino fu una moneta talmente benaccetta che Mainardo II convinse Corradino – il figlio di sua moglie, avuto dal precedente matrimonio con l’imperatore Corrado IV – ad acquistarne ben 330 mila. Con questi Corradino finanziò la spedizione con cui intendeva rivendicare il trono di Manfredi di Sicilia, già sconfitto nel 1266 a Benevento. Una decisione che giustifica i numerosi ritrovamenti della “nostra” moneta in tutto il centro e sud Italia, fino in Sicilia.

L’emissione di questa moneta da parte della zecca di Merano andò avanti per diversi decenni, in oltre sessanta varianti diverse, obbligate per via della facilità con cui le matrici si consumavano. Un successo testimoniato dalle numerose imitazioni nel nord Italia almeno tra il 1319 e il 1341, ad esempio a Padova, ma anche a Vicenza, a Mantova, a Parma e sorprendentemente anche a Verona, la cui zecca batteva i famosi denari, pian piano oscurati dalle monete meranesi.

La zecca, un’istituzione.

Infatti, con l’invenzione del Kreuzer, nel 1272 arriva il secondo colpo di genio di Mainardo II, quella moneta che a buon diritto rivoluzionò la storia economica sia dell’area tedesca sia di quella nord italiana, tanto da resistere fino al 1892, quando venne sostituita dalla corona. Il Kreuzer (o grosso tirolino) raffigurava un’aquila con testa rivolta a sinistra e ali appuntite e aperte. La dicitura “Comes Tiro” scritta con caratteri veronesi era un chiaro riferimento al fatto che quella moneta avrebbe dovuto conquistare la Padania, come in effetti accadde. Sul rovescio, una croce maggiore che interrompe quattro volte la scritta “Meinardu”. Una moneta talmente preziosa che venne battuta identica anche dopo la morte di Mainardo II e anche dopo che nel 1363 il Tirolo passò all’Austria.

In conclusione, per oltre 200 anni, sotto le varie reggenze, tra le quali quelle di Federico IV Tascavuota e di Sigismondo il Ricco, la nostra città continuò a battere la sua moneta, almeno fino a quel dicembre del 1477, quando su decisione dello stesso Sigismondo personale e materiali della zecca meranese vennero trasferiti ad Hall. I meranesi reagirono con veementi proteste e una breve insurrezione alla decisione che privava la città di una preziosa fonte di reddito e che ne avrebbe ben presto segnato il declino. Ad Hall, per altri cinque secoli, sulle indicazioni dei mastri meranesi, andò avanti il lavoro iniziato in città, fino all’avvento della moneta unica.













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