Vittima di violenza senza un tetto 

Il caso a Merano. Anna vive coi suoi figli alla Casa delle donne: per una vita è stata isolata, picchiata e minacciata da due uomini Tra poco tempo dovrà lasciare l’alloggio protetto, ma le serve un’alternativa. «Per me un giudizio o un rimprovero sono sempre pronti»



Merano. Questa è la storia di Anna (il nome è di fantasia per tutelare lei e i suoi figli), vittima di violenza maschile. Due uomini, proprio quegli uomini di cui credeva di potersi fidare, le hanno portato via metà della sua vita. Vorrebbe ricominciare, dare una casa ai suoi figli, trovare stabilità. Ma la crisi agita la sua falce su chi già viveva in una situazione di forte disagio, soprattutto se sei una donna sola con figli. «Ora vivo in un alloggio protetto grazie alla Casa delle donne di Merano, ma dove andrò quando dovrò lasciarlo?».

Quelle come me.

La storia di Anna scava nel profondo della società del benessere. Raschia via la patina glam delle case di lusso, la retorica imprenditoriale, le immagini delle famiglie “tradizionali”. Graffia l’amore romantico con lo scanto di una giovane donna sfinita da relazioni tossiche. «Eh, ma se l’ha sposato significa che le piaceva», dirà qualcuno. All’inizio le piaceva, sì, ma se quelle attenzioni maschili poi si trasformano nel progressivo isolamento della donna le cose cambiano parecchio. «In questo sistema nel quale vengo giudicata di aver amato e sposato un uomo violento, pressata su come educare i miei figli, un rimprovero è sempre pronto. Per quelle come me non esiste perdono ad alcun errore».

Isolata.

«I miei figli sono nati dal mio primo matrimonio, finito nel 2010 – racconta –. A quei tempi vivevo in una situazione di estremo isolamento dal mondo esterno, non avevo il diritto di avere un telefono, né di avere un’amica. Non avevo alcuna disponibilità economica, uscire di casa comportava soltanto fare la spesa o piccole commissioni. Dopo sette anni di questa convivenza assurda e diversi episodi di violenza decisi finalmente di denunciare il padre dei miei figli e di rivolgermi al centro antiviolenza di Bressanone».

Anna ha poco più di vent’anni. Denunciato il marito violento, trovato sostegno al centro antiviolenza, decide di ricominciare tutto. Ma è di nuovo vittima di violenza economica. «Mi diplomo e supero l’esame B1 del patentino di bilinguismo per poter lavorare in provincia di Bolzano, dove vivo ormai da 16 anni. Per poter pagare un affitto di 800 euro, ma soprattutto per mantenere me e i miei figli e avere una vita dignitosa, ho fatto diversi lavori. Il padre dei bambini non ha mai contributo a nulla, anzi, dopo una condanna per maltrattamenti in famiglia abbandona l’Italia rendendosi irreperibile».

Sfiduciata.

A una decina d’anni dalla fine del matrimonio, Anna pensa di aver finalmente riacquistato la libertà che le era stata portata via. Nella lunga lettera scritta alla nostra redazione usa una parola, “illudersi”. «Credevo di aver messo finalmente il cuore in pace illudendomi di poter riprovare ad avere una famiglia», dice. Tra gli effetti della violenza maschile c’è questa sensazione che lo slancio verso una nuova relazione non possa essere altro che ingenuità. Annichilisce la fiducia in se stesse.

Anna usa ancora quel verbo, stavolta però per smascherare il maltrattante. «Mi innamoro per la seconda volta illudendomi ancora di aver sposato un uomo perfetto. Subito dopo il matrimonio la maschera di quest’uomo cade, e comincia un nuovo periodo di violenza, fatto di minacce, spesso anche di morte, violenza fisica, economica, psicologica, sessuale... Dopo un periodo di ripetute minacce e percosse, disperata mi rivolgo al centro antiviolenza di Merano, dove io e i miei figli venivamo accolti».

In cerca di una casa.

Durante la quarantena Anna perde il lavoro e non riesce più a pagare l’affitto dell’appartamento a Bressanone dove lei e i suoi figli abitavano prima di rifugiarsi a Merano. I proprietario decide di cambiare la serratura della porta. «I miei figli hanno dovuto cambiare da un giorno all’altro casa, scuola, amici, città. Abituarsi a nuovi ritmi, regole di convivenza dettate dalla struttura stessa. In questo centro si può rimanere per un periodo di sei mesi. In questo arco di tempo bisogna trovarsi un lavoro e un nuovo appartamento. Nel mio caso non è stato ancora possibile, ho avuto delle grosse difficoltà a far abituare i miei figli in una città estranea. Loro vorrebbero tornare a Bressanone, dove sono cresciuti, mentre io sono caduta in una profonda depressione e faccio fatica a vedere un futuro diverso, più facile, più felice. Ma la mia più grande preoccupazione va ai miei ragazzi, con le difficoltà che hanno a confrontarsi con gli altri giovani che non si trovano in queste condizioni. Purtroppo entrambi i miei genitori sono morti e io non ho nessun contatto con la mia famiglia d’origine, in un’altra regione italiana. I miei figli sono nati e cresciuti in Alto Adige e qui hanno il desiderio di rimanere. Ho fatto presente la mia situazione familiare all’Ipes, ma ormai sono 16 anni che mi propongono di rinnovare la domanda per l’assegnazione di un alloggio, senza che io riesca a ottenerlo. Il mio desiderio rimane quello di ricevere una casa per la quale possa pagare un affitto in base al mio reddito. Tante donne come me hanno paura di lasciare un uomo violento, perché la violenza in qualche modo continua». S.M.















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